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Il Mercadante ripescato

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festival di martina franca

Il Mercadante ripescato

Una scena tratta da «Francesca da Rimini» nello spettacolo di Pier Luigi Pizzi
Una scena tratta da «Francesca da Rimini» nello spettacolo di Pier Luigi Pizzi

Raro, anzi, mai successo: recensire un’opera del passato mai recensita. Cioè, mai eseguita. Non di un minore, bensì firmata da Saverio Mercadante, illustre punto di riferimento nel melodramma dell’Ottocento. Ascoltare la sua Francesca da Rimini è un’emozione per tutti: per il direttore Fabio Luisi, che la concerta minuzioso, per Pier Luigi Pizzi, che ne trae uno spettacolo dantesco e rutilante, per i giovani interpreti che intrecciano belcanto e accenti drammatici con incredibile naturalezza.

Per il Festival di Martina Franca, alla quarantaduesima edizione, la riscoperta di Francesca da Rimini è il più bel fiore all’occhiello. Innanzitutto perché la partitura è di gran pregio, dove l’appassionato si diverte nel riconoscere tutte le parentele: le colorature vertiginose di Rossini, le note immacolate di Bellini e ancora gli impasti robusti di Donizetti. Il tratto identitario, caratteristico, è la pennellata contrappuntistica, che frange orchestra e cori, spezza i concertati, dando loro ricchezza e profondità. Siamo nel 1830, un anno dopo il Tell e un anno prima di Norma: Mercadante ha trentacinque anni ed è maestro riconosciuto e richiesto.

Anche a Madrid, dove inizia e finisce l’avventura di Francesca da Rimini. La storia è curiosa: emblematica per confermare l’importanza del ruolo delle donne, che pur non scrivendo opere nell’Ottocento ne determinavano la sorte (vedi la Colbran, vedi la Strepponi...)

Mercadante con un lauto contratto viene ingaggiato dalla casa reale di Spagna, col compito di sovrintendere alle stagioni teatrali per sette anni e col patto di scrivere per ogni stagione due opere nuove. Ma questo non era un problema; era la prassi, dal San Carlo alla Scala. Il problema erano le primedonne. E su Francesca sembrò cadere da subito una maledizione (aggiungere infernale sarebbe banale).

La prima fu Adelaide Tosi, la bella milanese che pur sposata con un conte toscano era amorosa con Mercadante: a lei spettava il debutto nel ruolo principale in Francesca da Rimini, ma a Madrid l’opera non venne mai eseguita (e in una lettera, come documenta Elisabetta Pasquini, curatrice dell’edizione critica del titolo riscoperto, Mercadante ne biasima la voce, logorata, non più quella di una volta). Dopo la Tosi venne Giuditta Pasta: nel 1831 Mercadante aveva ottenuto di portare l’opera alla Scala, ma nemmeno lì si arrivò all’esecuzione, anche e soprattutto perché la primadonna non figurava nel ruolo del titolo (anche con Verdi, poi, quante volte questo problema!). Così il compositore si tenne il manoscritto, ora a Bologna, con una copia a Madrid, e sulle cantanti gettò la spugna. Del libretto di Felice Romani, tratto da una tragedia di Silvio Pellico, non vi fu stampa.

Ma l’eroina dantesca era pronta a gettare i suoi sortilegi anche a Martina Franca, perché la titolare, Leonor Bonilla, nelle ultime prove si ammalava. A questo punto, però, virando in positivo la storia, perché anziché una giovane, si sono così potute conoscere due belle voci, altrettante preparate. A quella di Giulia De Blasis, limpida, determinata e di grande classe, va un encomio speciale anche per il coraggio.

Qui, al Festival della Valle d’Itria, le voci nuove sono una costante. Ma erano davvero speciali il contralto, Aya Wakizono, morbida nel ruolo en-travesti di Paolo, e il tenore, Mert Süngü, geloso aggressivo, martellante, saldo. Con un gesto profondo Pizzi non fa uccidere da lui Francesca, che invece sceglie il suicidio sul piccolo pugnale di Paolo, a sua volta suicida, con vistosa giapponesità.

Il ritorno di Pizzi a Martina è un avvenimento: il gusto, la visività, la bellezza con lui trionfano. Il palcoscenico leggermente inclinato dialoga con una passerella che porta i cantanti a contatto col pubblico: finalmente il belcanto ci parla. La quinta del muro di Palazzo Ducale diventa, con le luci appropriate, una parete di Leon Battista Alberti. Echi di Piero della Francesca abitano i costumi di sete cangianti, lo zuccotto del padre di Francesca (Antonio Di Matteo), le alabarde dei magnifici giovani danzatori, cesellati dalla poesia di Gheorghe Iancu. Bianco e poi sempre più nero, lo spettacolo coinvolge genialmente anche il vento, che a Martina è bizzarro e onnipresente. È lui a trasformare due semplici veli in lingue di tempesta, puro Dante.

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