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Non chiamatela erbaccia

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verdeggiando

Non chiamatela erbaccia

Con la sua foglia larga, l'umile e disprezzata bardana ha invece, secondo Janet Malcolm, una sua specifica valenza estetica
Con la sua foglia larga, l'umile e disprezzata bardana ha invece, secondo Janet Malcolm, una sua specifica valenza estetica

Le erbacce non sono più quelle di una volta. Una rivoluzione iniziata una trentina d'anni fa col serpeggiare, tra botanici e paesaggisti, di un nuovo fermento di idee.
Il jardin en mouvement di Gilles Clément ha segnato l'apoteosi dei tassi barbassi, trasformati in registi dei sentieri in giardino. Poi c'è stata l'edizione 2003 del Festival di Chaumont sur Loire, dedicato alle mauvaises herbes. Fino alle wild zone propugnate da Karen Payne per riavvicinare alla natura i giovani delle periferie degradate.

Mai però avrei immaginato che Janet Malcolm, una delle penne più affilate di Manhattan, autrice di libri-inchiesta esplosivi sugli archivi Freud e i rapporti tra Sylvia Plath e Ted Hughes, avrebbe trascorso ben tre estati, nella sua casa di vacanza sui Berkshires, a fotografare semplici foglie di bardana (Arctium lappa). Questa asteracea, comunissima nei campi ma soprattutto nei terreni incolti, tra macerie e discariche, è tra le più odiate dai cultori dei prati all'inglese: questi “passatisti” vedono come il fumo negli occhi qualsiasi foglia larga. Figuriamoci la bardana, che troneggia maestosa come il rabarbaro e la gunnera. Queste però sono piante di pregio, di regola acquistate da chi le coltiva nei vivai, e hanno la decenza di crescere quando e dove lo decidiamo noi. Nulla a che vedere con la bardana e la sua vitalità ribelle.

Janet Malcolm, con la sua nomea di essere tutto fuorché una persona “carina”, deve avervi avvertito un'affinità di sorta. Così ha preso a raccoglierne le foglie, infilarle in bottigliette di vetro, e appunto ritrarle. Tolta dal mucchio, ognuna rivelava un suo spiccato carattere, diverso da tutte le altre, e diventava, se non persona, personalità. «I ritratti di Richard Avedon di gente famosa mi sono serviti da modello per i miei ritratti di foglie di nessun pregio». In quegli scatti impietosi Avedon metteva a nudo i segni del tempo sui visi, costringendo a vedere, amplificandolo, quanto sfuggiva a occhio nudo. Allo stesso modo, Janet Malcolm ha scelto le foglie più vecchie, sciupate, quelle su cui la vita ha lasciato il segno. Foglie bucate da un insetto, chiazzate da una malattia, lacerate dal vento, rigate dalle gallerie di un parassita o inzaccherate da scrosci di pioggia. Iconizzandole, le trasfigurava, perché «fare una foto è un atto trasformativo».

Così trattata – decontestualizzata, come scrive con un filo d'ironia – l'umile e sprezzata bardana rivela una sua specifica valenza estetica. Al punto che la serie di erbacei ritratti è poi diventata un libro, Burdock, e una mostra, dallo stesso titolo, appena conclusa alla galleria Lori Bookstein Fine Arts di New York. Questo evento è a suo modo una pietra miliare: sancisce la fine del vecchio modo di guardare alle erbacce, la loro promozione – da beniamine di giardinieri eccentrici e visionari – al vero e proprio establishment culturale. Del resto, l'incontro di Janet Malcolm con la bardana è avvenuto non zappettando nell'orto, ma sul suo terreno di lavoro: i libri. Prima in Nathaniel Hawthorne, che nella proliferazione delle bardane vedeva un segno inequivocabile del declino della magione avita.

Poi in Cechov, di cui Janet Malcolm ha esplorato, con l'originalissimo Reading Cechov, i luoghi: dall'isola di Sakhalin alle dace di campagna. Dove si incontrano ortolani eroici ma anche cattivi nel ruolo di distruttori di boschi, oppure pionieri dell'ecologia come l'Ástrov di Zio Vanja. Ebbene, in tanta attenzione per i giardini e i campi, nemmeno Cechov si era spinto fino a considerare la bardana con occhi nuovi! Anzi: i poveri pazzi di Reparto N. 6 languono in balia di un medico pusillanime cui pare non valga la pena di darsi da fare per impedire alla gente di perdere la ragione o la vita, e lascia che tutt'intorno al maledorante edificio cresca «un'autentica giungla di bardane e di ortiche».

L'ortica, certo, punge, e questo mette in ombra tanti suoi pregi: l'uso per preparare infusi biodinamici, oppure l'utilizzo in cucina per zuppe, risotti e tortelli, oltre all'ospitalità offerta ai bruchi di certe bellissime farfalle. Anche la bardana ha proprietà medicinali, nella sua grossa radice e – a guardarla con sguardo equanime – è pure una bellissima pianta, con quegli steli rosso carminio e le grandi foglie ricadenti. Basta premurarsi di rasarle l'erba tutto intorno, e farà una gran bella figura. Ha un difetto, però: i suoi fiori violetti, simili a piccoli cardi spinosi, maturano in sfere di semi uncinati che, se solo si ha l'inavvertenza di passare loro vicino, si attaccheranno tenaci a calzini e maglioni, pantaloni e giacche. La bardana utilizza questo stratagemma per propagarsi, di solito attraverso il vello di qualche animale di passaggio.

Una vera seccatura, come sa chiunque abbia tentato di ripulirsene, eppure, anche qui, basta prenderla per il verso giusto: come fece nel 1948 l'ingegnere svizzero George De Mestral. Durante una passeggiata si era ritrovato una miriade di palline arpionate al maglione e al cane. Mentre le staccava una a una, De Mestral ebbe modo di notare l'efficacia di quel sistema di ancoraggio, e pensò di trovargli un'applicazione pratica. Vedeva così la luce il velcro, quel materiale utilizzato per unire, o separare, due lembi di tessuto. Chiamatela erbaccia!

Janet Malcolm, «Burdock», Yale University Press, pagg. 64, € 55,30

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