Cultura

Sbalordire più che documentare

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oriana fallaci (1929-2006)

Sbalordire più che documentare

Oriana Fallaci
Oriana Fallaci

Un leggero spaesamento. È quel che prova il lettore al termine di questa silloge di 120 missive, spedite da Oriana Fallaci nel corso nella sua operosissima esistenza (1929-2006), vissuta ai quattro angoli del globo.

Da un lato, infatti, sino agli anni Settanta inoltrati, brilla una Fallaci antifascista (già implume staffetta partigiana), terzomondista, antiamericana («Odio il loro denaro e la loro forza militare che interviene nella vita degli altri popoli»), protagonista dal 1973 al 1976 di una storia d’amore con il resistente greco Alexandros Panagulis, orgogliosamente estranea alla gabbia della «famiglia tradizionale», libertaria e femminista. «Che cazzo di rivoluzione è una “rivoluzione” che, come la “rivoluzione” portoghese, dimentica le donne?», si lamenta nel ’75 con un collega lusitano: «Questi “rivoluzionari”€ militari sono tutti uomini. Non c’è una donna nel Consiglio della Rivoluzione. Non c’è una donna al potere. Non c’è una donna al governo. Non c’è una donna nei quadri dei partiti politici. E la sola rivoluzione-evoluzione che avviene oggi è quella delle donne!».

Dall’altro lato, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, compare una Fallaci ormai lontana anni luce dalla sua prima vita: misantropa, arroccata nel proprio appartamento newyorkese, pasdaran delle fallimentari guerre di Bush jr, autrice di gettonatissime invettive contro un miliardo di musulmani, interlocutrice di Giuliano Ferrara e Vittorio Feltri, ammiratrice di Papa Benedetto XVI («Io adoro Ratzinger», scrive a Paolo Mieli: «Non solo perché è un uomo colto e intelligente ma perché è un uomo con le palle. L’unico, si sa, che difende l’Occidente»).

Potremmo attribuire questa discrasia alla naturale involuzione (o evoluzione) dell’animo umano: barricadero in gioventù, conservatore in vecchiaia. Ma forse la presente antologia (d’indubbio interesse, anche se purtroppo orbata dell’indice dei nomi e con note sin troppo elusive) può offrirci qualche ulteriore chiave di lettura. Oriana Fallaci, va ricordato, è stata la meno provinciale delle nostre giornaliste e la più conosciuta all’estero. Se la fama di Indro Montanelli si afflosciava subito dopo la frontiera di Chiasso, soltanto una come Oriana poteva rivolgersi nel 1983 al segretario generale del PCUS, Andropov, «nella speranza che il mio nome non Le sia totalmente sconosciuto». Però la Fallaci era una giornalista profondamente radicata nel microcosmo culturale nostrano. Come confesserà nel ’94 allo storico inglese Roger Absalom: «Io mi sono sempre considerata uno scrittore prestato al giornalismo, uno scrittore che s’è regalato troppo a lungo al giornalismo, e non un giornalista che poi s’è messo a scrivere libri».

Questa concezione del giornalismo come genere letterario, tipicamente italiana, ha sempre sacrificato il vero al verosimile, lo sguardo analitico alla brillantezza. Non a caso, Oriana indicava tra i suoi modelli Curzio Malaparte, anche lui una penna scintillante ma tutt’altro che maestro di realismo. Applicandole un’autodefinizione di Thomas Bernhard, potremmo dire che la Fallaci è sempre stata una «grande artista dell’esagerazione», rivolta più a sbalordire che a documentare. Per questo è riuscita a traghettare le proprie idee da sinistra a destra, conservando il medesimo stile: virtuoso, impressionista, uterino.

Non parliamo dell’ego smisurato, testimoniato dalla serie di iperboli che costellano le sue lettere: «non v’è uomo o donna colpevole verso di me che non sia finito nella Siberia dei miei sentimenti»; «sono stata bombardata come la città di Hanoi: per nove giorni»; «finirò il libro. L’unico interrogativo è: sopravvivrò a esso?»; «i miei amici si contano sulle dita di una mano e per diventare tali devono passare gli esami di anni»; «il libro è uscito il giorno del mio compleanno e ha fatto il rumore di una bomba»; «se qualcuno scriverà la mia vita, un giorno, questa persona sarò io e nessun altro». Sembra di leggere il roboante epistolario di Nietzsche, altro personaggio immune dal senso dell’ironia.

Dopo l’11 settembre, il solipsismo di Oriana assumerà accenti metafisico-apocalittici. Spossata dall’«Alieno» che era in lei (come chiamava il cancro), rifugiatasi in una solitudine claustrale, mossa dalla convinzione che «a volte la Verità stia da una parte sola» (sic a Giuliano Ferrara), la giornalista toscana sognerà di reincarnarsi in Robespierre o, «meglio ancora, nel brav’uomo vestito di rosso che aveva il piacere di tagliare personalmente le teste». Se la Fallaci 1.0 aveva eletto Kissinger a epifenomeno del Male («un fascista», «un cow-boy presuntuoso e arrogante», che ha «contribuito all’eccidio di un’intera generazione, in Vietnam»), i nemici della Fallaci 2.0 saranno i «figli di Allah» e il loro Profeta, «con le sue nove mogli, tra cui quella di nove anni, e le sue sedici concubine inclusa la cammella».

Ma così come le sue antiche catilinarie contro gli americani, i complotti della Cia e i «fascisti» (da lei scovati ovunque) sono oggi di scarsa utilità per comprendere il contesto degli anni Sessanta e Settanta, le sue riflessioni postreme sulla «rabbia e l’orgoglio» saranno ricondotte dai futuri storici alla più classica libellistica antislamica, che esiste da oltre un millennio. Del resto, come la stessa Oriana aveva spiegato nel ’75 a un collega, «vivere significa per me partecipare. Chi partecipa fa una scelta. Quindi non può essere obiettivo».

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