Cultura

Un tuffo nell’era Chruščëv

  • Abbonati
  • Accedi
anni 60 / urss

Un tuffo nell’era Chruščëv

Il diario dello storico Claudio Pavone nella Russia di Nikita Chruščëv, dedicato a un breve viaggio nel 1963, si legge d’un fiato, talmente è ricco di sapide osservazioni su un mondo che a noi - storici di un’altra generazione - appare quasi mitologico. Pavone adopera un’energia titanica nell’osservare tutto e tutti, facendo riflessioni su tutto e tutti. Nel diario si respira costantemente un’aria da guerra fredda: ci sono le atmosfere grigie, il clima spossato e ambiguo del dopoguerra, come nel film Il terzo uomo. Il diario, però, è una descrizione fedele della realtà. A Graham Greene, tuttavia, non sarebbe dispiaciuto il suo giovane accompagnatore, il sovietico Georgij Papavian, che compare sempre, anche durante la macabra visita alla mummia di Lenin. Papavian, a ogni osservazione dell’italiano, risponde con il solito «molto interessante».

Aria di Russia è la scoperta di un “nuovo mondo” dopo la caduta di Stalin, nel cauto disgelo del suo successore, attraverso gli occhi di un archivista italiano di quarantadue anni (oggi storico di fama internazionale, che compirà novantasei anni il prossimo 30 novembre). Nel 1963, Pavone fu invitato in Urss, nell’ambito di un accordo bilaterale, per raccogliere informazioni sui documenti italiani. Il diario è stato scritto da un uomo che aveva partecipato attivamente alla Resistenza, esperienza che determinerà in Pavone anche la sua attività di ricercatore scientifico, nel campo storico, in maniera completa. Nel diario, gli studiosi troveranno delle considerazioni inedite sul fenomeno della Resistenza come “Secondo Risorgimento”.

Nel viaggio verso Mosca, in treno, Pavone fa una tappa intermedia a Karlovy Vary (la Karlsbad dell’Ottocento, ora Repubblica Ceca). Nelle “Terme di Carlo”, Pavone partecipa tra il 2 e il 4 settembre 1963 al III Convegno internazionale di storia della Resistenza. Lì, in quella landa dell’ex Impero asburgico, dove si conservano i modi di un estetismo fin de siècle, Pavone osserva lo strano fenomeno di un congresso che raccoglie le migliori menti della sinistra europea, in edifici prima frequentati da aristocratici e intellettuali cosmopoliti e ora, oltre ai professori di Italia, Francia, Inghilterra e dei Paesi del Patto di Varsavia, dai militari sovietici. Queste sono le pagine più noir, affascinanti e ricche di spunti narrativi, con una serie di profili indimenticabili: lo storico cecoslovacco Karel Bartošek, quello francese Henri Michel, lo storico militare sovietico Evgenij Boltin e Giorgio Rumi, accompagnato dalla fidanzata «bella, elegante, silenziosa, dal volto fisso». Pavone attraversa altri Paesi del Blocco Sovietico e arriva a Mosca, dove sta fino al 19 settembre. Una parentesi è dedicata alla ricerca negli archivi di Leningrado, dal 20 al 26 settembre. Il 28 settembre, Pavone è a Kiev, poi all’inizio di ottobre nuovamente a Mosca, da dove riparte il 5 ottobre per l’Italia, questa volta in aereo. A Mosca, il giovane archivista è un flâneur felice: osserva compiaciuto l’eleganza della casa moscovita di Lev Tolstoj, diventata museo; gode di numerosi concerti, delle bellezze del Cremlino e di tanti incontri. Soprattutto annota le soddisfazioni d’archivio: accorgersi di saperne più del diavolo, nella fattispecie, più di Franco Venturi, lo studioso italiano che più si è occupato della storia russa.

A Mosca, Pavone entra nel mausoleo di Lenin. Non leggiamo delle considerazioni sulla Rivoluzione del 1917 (quelle le farà, con molta lucidità, qualche anno dopo, nel 1967, Alberto Ronchey), ma una descrizione precisa della visita e della gente sovietica che «non si ferma mai», come in un funerale di paese: «Finalmente vedo Lenin, prima di profilo, poi di fronte, poi di nuovo di profilo. È tutto vestito di nero, e il corpo è appiattito. Ha la giubba chiusa dei primi bolscevichi (di quelle che portano ancora i cinesi). La testa la fisso a lungo, per decidere se è una statua o un uomo vero: può sembrare assurdo, ma la cosa non appare affatto chiara. E non tanto perché il volto di Lenin, come le sue mani, sembra di cera, ma perché la domanda che mi sta più pressando dentro è questa: cosa aggiunge alla verità che è per noi Lenin vederne così il corpo? Guardo di sottecchi Papavian, ma il suo volto non tradisce reazioni. Lenin è somigliantissimo a quello che si vede nelle fotografie: la fissità e la mancanza di espressione hanno rinsecchito l’aspetto puramente morfologico, che è così vicino al vero, ma come in una copia mummificata (del resto, è proprio la parola adatta). Una fotografia ha gli occhi vivi; qui c’è il corpo vero, ma gli occhi sono chiusi. Cosa vale di più?».

© Riproduzione riservata