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Zappare, che bellezza

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Zappare, che bellezza

Due bambini imparano i trucchi della coltivazione in una serra
Due bambini imparano i trucchi della coltivazione in una serra

Lev Nikolaevicv Tolstoj ha anticipato la sensibilità del nostro tempo: da bravo riccio à la Isaiah Berlin, non si accontentava di guardare: voleva sentirsi immerso nella natura. Nei diari annotava, nel maggio 1857, di essere rimasto del tutto freddo alla vista del gelido panorama dello Jaman: «Amo la natura quando mi circonda da tutte le parti e poi si svolge in lontananza fino all'infinito, e mi ci sento dentro. Mi piace quando da tutte le parti mi circonda l'aria calda, e la stessa aria si perde avvolgendosi nell'infinita lontananza; quando questi fili d'erba succosi, che schiaccio sedendomici sopra, richiamano il verde di infiniti campi; quando queste stesse foglie che, mosse dal vento, spostano l'ombra sul mio viso, compongono la linea del bosco lontano; quando mi ronzano e sciamano vicino miriadi d'insetti, strisciano le coccinelle, e gli uccelli riempiono l'aria col loro canto. E qui, invece (nel panorama distante): una superficie fredda, nuda, umida e deserta, e da qualche parte qualcosa di bello, che s'intravede velato dalla lontananza. Ma questo qualcosa è così lontano che io non provo il piacere per me più grande che possa venirmi dalla natura, non mi sento parte di quest'infinito e bellissimo intero».

Sentirsi parte: ecco quanto per la sensibilità contemporanea è diventato il senso del fare giardino. A questo fine poco si presta un parterre da contemplare dalla loggia di casa o dalle finestre del piano nobile. Meglio uno spazio, una dimensione che ci inglobino, in cui entrare con le mani, gli attrezzi, i semi, le buche che scaveremo. Il giardiniere, lo racconta argutamente Karl Capek, è soddisfatto solo quando ha le mani occupate (et l'esprit libre, aggiungerebbe Gilles Clément). Robert Pogue Harrison ne scrive come del luogo ideale dove realizzare la vocazione umana alla Sorge, il prendersi cura.

I giardinieri lo sanno: nulla rallegra più di mettere a dimora una pianta, tagliare un ramo secco, mettere da parte la legna. La felicità in giardino nasce nella relazione fattiva. Pensiamo per esempio a una declinazione particolare di giardino del nostro tempo: l'orto scolastico o sociale. Un tipo di giardino che addirittura entra in noi attraverso ciò che ne mangeremo. Una simbiosi alla lettera che permette di riconnettersi alla vita e non solo all'esperienza estetico-filosofica. Il giardino del nostro tempo, nel senso: il giardino di cui il nostro tempo ha bisogno, sa riconnettere l'uomo alla natura nel senso primario del termine, di corpo a corpo in cui coltivare le piante da cui trarre nutrimento, in tutti i sensi.

Molto del futuro di questo giardino dipende dal far sì che fin da piccoli i bambini conoscano questa esperienza formativa fondamentale in quella sorta di giardino semi-pubblico che è il giardino nel cortile della scuola: un orto che idealmente sarà anche giardino, con alberi fiori cespugli ed erbe spontanee, ideale per sperimentare quella tranquilla felicità che la natura sa trasmettere. Si ravviverà negli orti scolastici anche la speranza che l'interesse per i giardini si trasformi in qualcosa di duraturo, magari grazie a quella gioia tranquilla che solo il contatto con la natura trasmette.

Anni fa partecipai al seminario tenuto da Masanobu Fukuoka in India, nella fattoria di Vandana Shiva: «Nature as teacher», la natura come maestro. Una mattina l'anziano agronomo autore di La rivoluzione del filo di paglia srotolò un disegno in cui aveva tracciato l'origine della nostra civiltà: l'Albero della conoscenza del Bene e del Male, col serpente attorcigliato intorno al tronco. «Sapete cos'ha insegnato il serpente ad Adamo?». Silenzio. «Sono anni che ci penso, l'ho capito questa mattina. Com'è il corpo del serpente? Ricoperto di scaglie, per questo si muove in una sola direzione. Può insegnare ad andare avanti, ma non a tornare indietro. Gli uomini non sono mai progrediti oltre la sapienza del serpente: sanno dividere ma non riunire, trasformare il petrolio in plastica ma non la plastica in petrolio, consumare risorse ma non crearle». È la direzione a senso unico, irreversibile, dello sviluppo o progresso che dir si voglia.

E se invece fosse possibile aggiustare la rotta di questo percorso tutto monodirezionale? Imparare ad agire tenendo conto dell'andamento ciclico, mai lineare, della natura? Imparare anche a ridurre la nostra impronta ecologica sul mondo? Ecco che l'orto scolastico si configura come il momento ideale per maturare la consapevolezza del giardino non come qualcosa di statico, ma mondo fluttuante di un processo sempre in corso. Si muovono in questa direzione i paesaggisti più innovativi, ma anche i guerrilla gardeners, i propugnatori delle Wild Zones. L'idea è innescare azioni relazionali significative, realizzare interventi anche soltanto temporanei sul paesaggio campestre ma soprattutto urbano.

Il giardino del nostro tempo non è uno spazio circoscritto; lo ha detto Clément, il giardino è planetario, non ha confini. Ma allora cos'è il giardino? Forse qualcosa che ci portiamo dentro come atteggiamento, visione, attenzione, capacità di rispondere agli stimoli alle proposte e anche alle richieste di aiuto della cosiddetta natura. Un modo di non perdere il contatto con la vita, un prendersi cura all'interno del mondo e con il mondo, quindi anche con il paesaggio. È consapevolezza del giardino all'interno del paesaggio. E anche della necessità di conservare qualcosa della selvatichezza. «Il giardino vero è l'unione tra la persona e la natura ricreata: mondo accurato fatto di grazia. Il buon giardino è l'equilibrio tra la quiete della domesticità e la vibrazione del mondo selvatico», ha scritto Oliva di Collobiano. Aggiungo: è gentile non dimenticare che la nostra presenza è imposta a un paesaggio preesistente. Bellezza e armonia nascono spesso dall'occultamento di una simile violenza. Il «mondo fluttuante» del vero giardino non ha nulla a che spartire con certi scenari che lasciavano freddo Tolstoj.

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