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Zarathustra il misterioso

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ZOROASTRISMO

Zarathustra il misterioso

«Il faravahar», uno dei simboli più noti dello zoroastrismo, sul frontone del tempio del fuoco
«Il faravahar», uno dei simboli più noti dello zoroastrismo, sul frontone del tempio del fuoco

Also sprach Zarathustra: anche chi non ne ha mai letto una riga conosce il titolo di quest’opera capitale che Nietzsche elaborò tra il 1883 e il 1885 e che è considerata cruciale per definire l’evoluzione del pensiero e dello stile del filosofo tedesco. Che le parole di questo misterioso fondatore di una religione che porta il suo nome deformato all’occidentale – cioè zoroastrismo (o mazdeismo, dal nome della sua divinità suprema Ahura Mazda) – siano state liberamente create da Nietzsche è così evidente che egli non esita a incrociarlo persino con Gesù: «L’uomo di Nazaret conosceva soltanto le lacrime e la malinconia dell’ebreo ... È morto troppo presto: avrebbe ritrattato lui stesso la sua dottrina, se fosse giunto alla mia età».

In realtà Zarathustra entrò in scena molto prima di Cristo, anche se in un’epoca così indefinita e fluttuante che le ipotesi degli studiosi oscillano tra la fine del II millennio e gli inizi del VI sec. a.C., al punto tale che non è mancato anche chi lo ha ricondotto nel limbo di una figura mitica, prototipo di una religiosità essa stessa già fluida e mobile. Fare, perciò, il punto storico-critico sullo zoroastrismo è un’impresa ardua che richiede una straordinaria attrezzatura filologica e una particolare duttilità ermeneutica. È ciò che rivela uno dei nostri maggiori esperti di letteratura, storia e religione iranica, Antonio Clemente Domenico Panaino dell’università di Bologna.

La sua scelta didattica è nitida. Innanzitutto egli ci conduce per mano lungo il tracciato storico nel cui alveo questa religione è sbocciata, è cresciuta, si è evoluta e si è anche inaridita sotto il peso di nuovi poteri politici e religiosi. È una vera e propria cavalcata nei secoli e nelle distese del territorio iranico e dei paesi circostanti. È interessante notare, ad esempio, che gli incipit delle iscrizioni in antico persiano di imperatori celebri come Dario o Serse siano collocati all’insegna del capo supremo del pantheon zoroastriano: «Il grande Dio è Ahura Mazda che ha creato l’uomo, che ha creato la beatitudine per l’uomo, che ha fatto Dario re, un solo re tra molti re, un solo sovrano tra molti». «Dice Serse, il re: Non appena divenni re c’era tra i paesi ... uno che si era ribellato. Successivamente Ahura Mazda mi ha portato aiuto...».

Dopo questa carrellata nell’orizzonte variegato della storia, si apre davanti a noi il mondo affascinante della teologia e del culto mazdeo. La base scritturistica è l’Avesta, un canone sacro di molti testi, composti in una lingua antico-iranica orientale detta appunto avestico che si biforca in due tipologie, l’antica e la recente. L’evoluzione storica condiziona il modello teologico-rituale che, perciò, dev’essere ricostruito ricorrendo anche a fonti esterne classiche, ebraiche, siriache, armene e arabe o a quelle in pahlavi, la lingua della Persia sasanide (224-636 d.C.), un curioso fenomeno linguistico autonomo che aveva adottato un alfabeto derivato dall’aramaico. Panaino apre il sipario su un complesso sistema cerimoniale che comprende una liturgia solenne celebrata all’interno di un Tempio del Fuoco, il simbolo identitario a livello ormai universale dello zoroastrismo.

Naturalmente altri rituali rivelano un arcobaleno di atti, di temi, di trame, di segni. A questo sistema soggiace una teologia che si ramifica lungo vari percorsi ideali che attirano per la loro creatività. Molto suggestiva, ad esempio, è la riflessione sulla categoria “tempo” che viene intrecciata con quella spaziale della cosmologia, generando una tensione tra tempo finito e infinito. Si ha, così, il trapasso e l’ingresso nell’eterno ove brilla la dottrina escatologica della risurrezione e del giudizio finale, una concezione che – secondo molti esegeti biblici – ha esercitato un influsso significativo sulla fede del giudaismo post-esilico. Ma è proprio all’interno della creazione e della storia, destinata a procedere verso quella meta estrema, che si delinea un acceso dualismo. Infatti, si contrappongono dialetticamente Ohrmazd (che è Ahura Mazda in pahlavi) e Ahreman come due poli antitetici. «Mentre Ohrmazd estrae dalla sua luminosa ipseità la propria creazione, Ahreman, in forma di rana mostruosa, desideroso di copiare il mirabolante dispiegamento del regno di luce, realizza una contro-creazione frutto di un atto di sodomia su se stesso».

Si trapassa, così, a un dualismo etico che si ripercuote nella storia umana e che postula una salvezza dal male penetrato e “mescolato” col bene nell’esistenza. Luce e tenebre si aggrovigliano, divino e demoniaco si intrecciano già nel primo essere umanoide, Gayomart, “vita mortale”, nell’attesa del processo che condurrà, dopo la morte, al giudizio individuale aperto sulla trilogia inferno-purgatorio-paradiso. Il tutto è affidato a una descrizione mitica colma di figure, di simboli, di narrazioni metaforiche, di ammiccamenti, capaci di creare una certa vertigine nel lettore che s’affaccia per la prima volta in modo rigoroso su questo orizzonte così ramificato e complesso. I brandelli descrittivi a cui finora siamo ricorsi fanno intuire quanti scorci ulteriori l’analisi di Panaino riesca a schiudere davanti a chi procede come un pellegrino stupito in una terra incognita o nota solo per stereotipi.

Che cosa rimane dello zoroastrismo dopo il crollo dell’impero sasanide e l’irruzione arabo-islamica? È, questa, l’ultima tappa del saggio dello studioso di Bologna che indaga anche sul contatto del cristianesimo missionario soprattutto col mazdeismo indiano, e che approda alla crisi lenta e inesorabile di questa religione ridotta forse a poco più di duecentomila fedeli tra India e Persia. È, però, da registrare il fenomeno del neo-zoroastrismo che ha la sua espressione nel Mazdaznan, un movimento fondato in California da Otto Hanisch (1844-1936), un iraniano di padre russo e madre tedesca, oppure nel movimento di Meher Baba, cioè Merwan Shehariarij Irani (1894-1964), dai connotati sincretistici. Ma si tratta di rianimazioni marginali di una tradizione e di un patrimonio culturale e spirituale ben più grandioso.

A livello popolare il mazdeismo – che, lo ripetiamo, ha una sofisticata concezione cosmologica, antropologica, escatologica e persino messianica – ha come emblema il fuoco, un simbolo rituale certamente significativo, davanti al quale si compie l’haoma, l’assunzione del succo di un vegetale sacro, una sorta di ambrosia di immortalità. Per questo in appendice al testo sono indicati alcuni “luoghi da visitare”, sia storico-archeologici (Persepoli, Pasargadae e la tomba di Ciro il Grande), sia religiosi (Yazd e Kerman) con santuari, Templi del Fuoco, Torri del Silenzio, anche se non sempre accessibili ai non zoroastriani. Per chi la potrà compiere, rimarrà, comunque, un’esperienza suggestiva, come è accaduto a me a Baku in Azerbaijan, nel tempio Atashagh (XVII sec.) i cui fuochi sono perenni perché alimentati dai rivoli di gas naturale che filtrano in superficie dalla porosità della pietra calcarea.

Antonio C.D. Panaino, Zoroastrismo. Storia, temi, attualità, Morcelliana, Brescia, pagg. 178, € 20

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