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Seducente quella voce!

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DEGNI DI NOTA

Seducente quella voce!

Quando si legge o si ascolta il luogo comune, degno non si sa bene se di Bouvard o di Pécuchet, secondo cui il teatro d’opera italiano dei secoli XVIII-XIX, da troppi chiamato «melodramma», sarebbe il «sostituto e rappresentante diplomatico» di ciò che in altre nazioni è il grande romanzo esprimente l’egemonia borghese, si è colti da due impulsi. Il primo è di «inflare irati ambas buccas» (vulgo, esclamare “uffa !|”), come Giove nella Satira I, 1, 20-21 di Orazio, al solo udire il termine «melodramma»: parola che al teatro musicale italiano si adatta soltanto in alcuni casi.
Il secondo impulso, immediato, è domandarsi per quali e quanti italiani, e dove dislocati, l’analogia tra teatro d’opera e romanzo corrisponda alla realtà. Per questo, va accolto come un dono gradito il saggio ambizioso e intelligente della regista e autrice teatrale Sonia Arienta. La motivazione è acuta: forse già marginalmente sfruttata da altri, e qui sviluppata con energia e generosità. La voce, nella sua realtà acustica, è uno fra i connotati essenziali di un individuo. Reca i contrassegni quasi sempre incancellabili di un’identità individuale (femmina, maschio, colto, ignorante, più o meno civilizzato, vile o ardimentoso, orgoglioso o servile, e noi diremmo anche, religioso o libero nel pensiero, giovane o vecchio), ma anche di un’individuazione collettiva: la nazionalità, la generazione collocata nel tempo, la libertà politica posseduta o perduta.

E, a proposito di quest’ultima dicotomia, essa spiega secondo noi perché la maggioranza dei giovani italiani di oggi (compresi i giovani impegnati nella politica o nelle leggi) si esprima non a parole né con nessi logici, bensì mediante rutti, mugolìi, guaiti, lagne, turpiloquio, frasi iniziate e interrotte da un gemito a mezz’aria. Ed ecco, dopo la praemissa maior e la praemissa minor, la conclusione operativa: la voce indica l’appartenenza a una classe sociale ed economica, a un gruppo organizzato secondo idee omogenee, e, manifestandosi come «il credo» nei confronti di una civiltà anziché di un’altra, ci orienta sul comportamento da tenere verso chi parla o canta o respira con un determinato timbro, con una scelta di apertura vocalica o di «Lautverschiebung» secondo la legge fonetica di Grimm e Rask. Sappiamo perfettamente che la nostra ultima asserzione potrebbe attirarci l’accusa di “razzismo” (!), ma, pazienza, sopravvivremo anche a questo. Non siamo forse sopravvissuti all’Expo?

Diventiamo serii. Il libro della Arienta si pone un tema centrale: il tipo di dialogo che si svolge, palese o tutto da indovinare e scoprire, tra i personaggi del teatro d’opera (naturalmente, anche il canto e la musica che lo sostiene, e il suo timbro e intensità e grazie a sguaiataggine…) e i personaggi dei grandi romanzi, e tra tutti quei personaggi e i lettori e ascoltatori.
È un libro seducente e “difficile” per gli sciocchi e ignoranti o semicolti (questi ultimi i peggiori!); è facile ed entusiasmante per chi abbia consumato gli occhi sui libri, e le orecchie nell’energia della musica forte. Si scelga: dialogare con Violetta o con don Carlos o con Uriah Heep o con Mr. Pickwick, oppure delirare per una partita di calcio. Il mondo è grande, c’è posto per tutte le specie zoologiche.

Sonia Arienta, Urli, mormorii, silenzi. Sociologia della voce nel teatro musicale e nel romanzo dell’Ottocento, Carocci, Roma, pagg. 284, € 29

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