Cultura

Sdoppiarsi per non esser soli

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FABRIZIA RAMONDINO (1936-2008)

Sdoppiarsi per non esser soli

Al principio del 1984 apparve sul «Mattino» di Napoli una strana intervista a Italo Calvino. Era appena uscito Palomar: una serie di brevi racconti che intrecciavano la descrizione della realtà con la descrizione di un pensiero che tentava di capirla senza quasi mai riuscirci. Nella prima domanda l’autore fu apostrofato «Professor Calvino»: forse per ingenuità o timore reverenziale della sua intervistatrice? Non è detto.
Il libro di Calvino era uscito nei «Supercoralli» Einaudi. Mettendolo copertina ingiù, sul bianco posteriore spiccavano due righe soltanto, un programma: «Potremo mai trovarci in pace con l’universo? E con noi stessi? Il signor Palomar è tutt’altro che sicuro di riuscirci, ma se non altro, continua a cercare una strada».
Quel signor Palomar era e non era l’alter ego di Calvino. L’intervistatrice – Fabrizia Ramondino, classe 1936, di tredici anni minore di lui – lo aveva capito: e interrogò separatamente i due individui, Italo Calvino e il signor Palomar, mantenendo la penetrante timidezza che le aveva suggerito quell’approccio: quel modo di pronunciare che le somigliava e la rivelava.

«Professor Calvino»: qualche mese fa Silvio Perrella, che introduce con un saggio illuminante la ristampa di Althénopis, primo libro della Ramondino uscito nel 1981, ha detto alla radio che la generazione degli scrittori nati negli anni trenta è una «generazione invisibile» venuta subito dopo la generazione dei «nostri antenati», gli scrittori nati negli anni dieci-venti che fanno il nerbo del secondo Novecento. Fabrizia Ramondino, ha detto alla radio Perrella (classe 1959), fu per lui e per i suoi coetanei «l’unica sentinella», il ponte che collegava quei grandi scrittori ai giovani che negli anni ottanta, al tempo del debutto di lei, cominciavano a leggere e guardarsi intorno. La generazione della Ramondino era troppo giovane per partecipare alla guerra ma la provò, e arrivò adulta al Sessantotto e alle sue liberazioni reali o fittizie. Fiorì lungo quegli anni cinquanta che un antenato vistoso, Pier Paolo Pasolini, definì «un ridicolo decennio».

Il signor Palomar era come una frazione di Italo Calvino, ma tagliata per storto. Fu per questo che Fabrizia Ramondino poté entrare in risonanza con lui in quell’intervista dove non si capisce chi è il gatto e chi il topo. Anche nei libri della Ramondino parla e agisce un personaggio doppio e asimmetrico, fin dal titolo dell’opera di esordio. «Althénopis» sarebbe infatti «il nome della mia città natale», una Napoli impronunciata il cui nome originario (innominato) significava secondo l’etimologia «occhio di vergine». Durante l’ultima guerra però gli occupanti tedeschi, «trovandola così imbruttita rispetto alle descrizioni di Mozart (…) e di Goethe, le mutarono il nome in Althénopis, che starebbe appunto a significare “occhio di vecchia”». Questa spiegazione, affidata a una nota a piè pagina, prosegue moltiplicando il gioco dei travestimenti e delle pseudo-etimologie. E risulta così saporita che si vorrebbe fosse vera.

La prima delle tre parti in cui è diviso Althénopis prende oltre metà del libro. Si svolge durante l’infanzia della protagonista che dice «io», in un luogo che al di là del nome fittizio Santa Maria del Mare ha l’aria e i colori della Costiera Sorrentina. A un certo momento questa bambina di sette anni è nel bagno di uno zio. Le piastrelle sono decorate con i segni dello Zodiaco: lei le descrive con gli occhi dell’infanzia che vede per la prima volta una volta per tutte, traducendo questo sguardo nella ricchezza di parole dell’età adulta, ma dette con tono fiabesco e quindi non irreali. Chiaro che non le piace la Bilancia, preferirebbe i Pesci, il Cancro, lo Scorpione, «ma più di tutti i fulgidi e biondi Gemelli. (…) quei Gemelli li avrei proprio voluti come segno. Non essere io, intanto, ed essere sempre accompagnata a un altro!».
Il doppio della Ramondino significa diventare adulti senza perdersi il bambino. Significa adottare il punto di vista dei poveri senza far finta di ignorare di essere stati ricchi (è questa la condizione della protagonista). Significa vivere sempre in almeno due mondi spaesati l’uno all’altro.

Nel bellissimo fascicolo de «l’illuminista» dedicato alla Ramondino da Beatrice Alfonzetti e Siriana Sgavicchia – un baule di seicento pagine che contiene il suo percorso, la traccia che ha seminato nella letteratura dei suoi anni, l’inizio e molto più che l’inizio degli studi per il futuro – si può leggere un saggio del 2002, Il maestro e io, destinato in origine al pubblico tedesco. È un saggio su Savinio che ci dice da dove vengono, sul piano culturale perlomeno, lo spaesamento, il culto e l’eresia dei nomi, le etimologie semifantastiche. Fra i libri di lei il più personale è forse un piccolo saggio narrativo del 1991, Star di casa. Ecco la frase che gli fa da fondamento: «Non sto quindi a Napoli sicura di casa». Se si togliesse il «quindi» si avrebbe un endecasillabo campano, con una sintassi a fior di pelle e insieme cantilenante di beata stanchezza: introdurre una volontaria dissonanza in un’armonia troppo facile è infatti un gesto tipico della Ramondino, ma non è nemmeno l’unico scopo della congiunzione in più. Piazzato così, il «quindi» sta a sottintendere antefatti e a promettere sviluppi. Aperto nelle due opposte direzioni – verso il prima e verso il dopo –, lo «stare» di Fabrizia Ramondino è mosso, e nella grazia del suo inciampo contiene la cosa sfuggente che ogni scrittore possiede, il raccontare.

La Ramondino era capace di scrivere in molti modi, e abbondanti. Althénopis ha una prima parte allusiva, una seconda iperrealistica, una terza e ultima dove la descrizione trabocca in visione. La prima è il racconto sciamanico di una picara di buona famiglia. Nomina, si è visto, scrittori e radici germaniche; è dotata di una fantasia mediterranea da cui rampica una vegetazione boreale. Quella prosa è un flusso che non si smetterebbe mai di seguire, o meglio dalla cui immersione non ci si toglierebbe mai; ma è un flusso che procede per continui incagli, che fermano il pensiero o lo sbalzano altrove. Scriveva Natalia Ginzburg nel presentare la raccolta di racconti Storie di patio (1983): «Temi ricorrenti, nella narrativa di Fabrizia Ramondino, sono l’infanzia, l’emarginazione, l’esilio. Pochi hanno, come ha lei, il dono di raccontare l’infanzia. È un’infanzia ripensata senza dolcezza, senza tenerezza e senza lagrime. È un’infanzia forte, curiosa, sfrontata, severa nel giudizio, pronta a scegliere ciò che ripudia e ciò che predilige, ciò che odia e ciò che ama. È un’infanzia pronta a mettere radici ovunque, ma tuttavia consapevole del fatto che le radici sono sempre fragili, che nei giorni più limpidi e solari si nascondono insidie, che ogni radioso paesaggio può di colpo sparire».

Agli esili visibili corrispondeva nella Ramondino un esilio interiore, un silenzio da custodire gremito d’immagini e pensieri più indicibili di quelli messi per iscritto. Di sdoppiarsi ne aveva bisogno per finta e per davvero, per poter parlare e per farsi compagnia. Era una mente ben ammobiliata che aveva rifiutato l’ordine, troppo afflittivo. Invece che somigliare a un’abitazione (la terza parte di Althénopis è appunto la descrizione di un appartamento, in una prosa a spigoli vivi) preferiva essere un deposito da cui sempre salta fuori qualche sorpresa. La terza parte di Althénopis esprime anche il rifiuto dell’ordine adulto e borghese, di qui il gelo della prosa tagliente.
Fabrizia Ramondino è mancata al principio dell’estate del 2008; ebbe un malore mentre nuotava nel mare di Gaeta. Con il suo primo romanzo, e con questo fascicolo dell’«illuminista», ritorna e la si può ritornare a leggere nella sua lingua timida e sontuosa che apostrofa il «Professor Calvino». Anche nel caso suo – volendo alludere a lei e alla sua prosa, alla pari – si può dire che quell’intervista fosse un esame, non si sa se per lei o per l’«antenato» o per tutti e due, ma quello che è certo è che lei sapeva imparando e imparava sapendo. Con umiltà e consapevolezza, era una donna preparata e che si preparava.

Fabrizia Ramondino, Althénopis, prefazione di Silvio Perrella, Einaudi, Torino, pagg. xiv-288, € 23

«L’illuminista», a. XV, n. 43/44/45, dicembre 2015, Fabrizia Ramondino, a cura di Beatrice Alfonzetti e Siriana Sgavicchia, pagg. 620, € 30

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