Benedetta Domenica! Il 22 maggio scorso ho scritto sulla mostra in corso al Palladio Museum di Vicenza e dedicata a Vincenzo Scamozzi come il primo architetto rinascimentale a formarsi non a bottega né in cantiere, ma circondato dai libri della propria biblioteca. Qualche giorno dopo sono stato contattato da un notaio comasco, Gianfranco Manfredi, che mi ha informato di avere nella propria (notevole) collezione un esemplare appartenuto e postillato da Scamozzi: il De Architettura di Vitruvio curata da Cesare Cesariano, pubblicata a Como nel 1521. Una scoperta eccezionale, che aggiunge un nuovo volume allo scaffale vitruviano della biblioteca scamozziana, accanto a quelli finora individuati in varie parti del mondo: una edizione del Vitruvio curato da Daniele Barbaro e Palladio nel 1556 oggi al Metropolitan di New York, le due riedizioni italiana e latina del 1567 (rispettivamente alla Biblioteca Vaticana e in una collezione privata in Gran Bretagna), il commento di Philandrier del 1544 alla Nazionale di Firenze e l’edizione “pirata” stampata a Strasburgo nel 1550 alla Avery Library di New York.
La fortuna è che Scamozzi scriveva il proprio nome sul frontespizio dei libri acquistati. Nel 2009 Kate Isard, la studiosa americana che più di tutti ha lavorato sulla ricostruzione della biblioteca di Scamozzi, riuscì così a scovare una copia de L’Architettura di Pietro Cataneo (Venezia 1567) finita a Buenos Aires. Il volume, appartenuto all’aristocratico inglese Sir John Hayforth Thorold e venduto all'asta a Londra 1884, fu acquistato all'architetto e bibliofilo argentino Juan Igon che lo donò alla Sociedad Central de Arquitectos di Buenos Aires che ancora lo conserva. La stessa studiosa ha individuato lo scorso anno addirittura in internet, scansionato e inconsapevolmente messo on-line da una biblioteca tedesca, un preziosissimo fascicolo di schede sui libri letti, che Scamozzi aveva inserito al termine di una edizione vitruviana. Nel 2005 è uscita allo scoperto una copia delle Vite di Vasari del 1568, oggi in una collezione privata americana, fitta di commenti di Scamozzi accanto alle biografie degli artisti.
Come ha scritto William Sherman in Used Books (Pennsylvania University Press, 2007) un volume da cui non può prescindere chi voglia avvicinarsi alla storia culturale della lettura nel Rinascimento, le annotazioni trasformano i libri da testi a esemplari, specchio delle mentalità dell’epoca in cui sono stati usati, spie che ci consentono di avvicinare almeno un poco un mondo lontano e sfumato, oltre che miniere di informazioni preziose sulla vita materiale e intellettuale dei singoli lettori.
Nel caso di Scamozzi, dai suoi appunti a margine delle Vite di Vasari, veniamo a sapere che possiede un manoscritto di Leonardo di macchine e strumenti bellici: «un libretto in sedicesimo, pieno di varii de questi capricii, fatto la maggior parte di lapis rosso, e scritto alla mancina». Io stesso ho tratto beneficio dalle postille vasariane perché sui margini della vita di uno dei capobottega del giovane Palladio, Scamozzi scrive «Di costui ho la maggior parte dei disegni che egli tracciò in Roma», informazione rivelatasi cruciale per dipanare le origini della formazione classicista del famoso architetto. Con un perfido commento vergato sul trattato di architettura di Serlio stampato a Venezia nel 1551, in una pagina dedicata all’anfiteatro di Pola, Scamozzi insidia l’affidabilità dello studioso bolognese. In un esemplare venduto a Parigi nel 2012, e oggi al Zentralinstitut für Kunstgeschichte di Monaco, Scamozzi scrive infatti che Serlio «non misurò né questo né altri edificij, come mi accertò la memoria di mio padre, il quale giovanetto lo conobbe».
Ma ancora più che offrirci informazioni preziose, le postille scamozziane ci raccontano personalità e idiosincrasie, insino la fragilità che lo porta a firmare le annotazioni più lunghe, come a rivendicarne la paternità a fronte di lettori futuri. Per tutta la vita Scamozzi combatte contro il fantasma di Palladio, tanto che ancora anni dopo la sua morte dichiara, ad un emissario dei Gonzaga, di non voler essere chiamato suo allievo, ma «di avere cose molto migliori di esso Paladio». Le postille ci raccontano anche come Scamozzi studiava e organizzava il proprio pensiero, aiutandoci anche a capire meglio la sua formazione. Ad esempio le modalità di schedatura di un gruppo di autori latini, conservatesi a calce di un volume vitruviano, seguono la struttura tassonomica dei modelli pedagogici dei Gesuiti, dando forza all’ipotesi che il giovane Vincenzo abbia frequentato, fra il 1578 e il 1580, lezioni al Collegio Romano.
Sul frontespizio del riscoperto Vitruvio di Cesariano, Scamozzi aggiunge «Commentati da Cesare Cesareano Lombardo e parimente da Benedetto Iovio e Buono Mauro». È evidente che Scamozzi, e gli studiosi del suo tempo, sono convinti che l’autore del commento vitruviano non sia il solo Cesariano ma anche i due eruditi lombardi Benedetto Giovio e Buono Mauro. In realtà si era verificato l’incubo di ogni autore: durante il lavoro all’edizione, ormai fatto per nove decimi, il povero Cesariano viene messo da parte. I due finanziatori fanno irruzione a casa sua, gli sottraggono bozze e matrici delle incisioni, e completano la stampa del volume. Per coprire la forzatura, inseriscono nel testo ambigui riferimenti ad una pluralità di autori ed i nomi di Giovio e Mauro. Solo nel Settecento la critica è stato in grado di ricostruire il vero ruolo avuto da Cesariano. Ma questo Scamozzi non lo aveva capito.
© RIPRODUZIONE RISERVATA