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Il ritorno della moglie

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Il ritorno della moglie

C’è una scena molto intensa alla fine de Il ritorno, uno dei più intriganti racconti di Joseph Conrad, il grande scrittore inglese di origine polacca, autore di Cuore di tenebra e di tanti romanzi memorabili a cavallo tra Otto e Novecento. Ed è quando il protagonista, Alan Hervey, un perfetto vittoriano con casa patrizia in un lussuoso Crescent londinese, deve affrontare la propria realtà sentimentale, davanti alla moglie con cui ha trascorso cinque anni di apparente felicità e armonia. Sui raffinati rituali della buona società, Hervey ha saputo costruire la propria fortuna amministrando abilmente una rete di relazioni sociali basate proprio sul matrimonio. Un “luogo” dell’anima che assomiglia troppo ad un “luogo” della rispettabilità borghese.

Il legame che ha tenuto insieme Alan e la consorte, e ha permesso loro di convivere formalmente, è fondato sulla gestione quotidiana degli «aspetti pratici della vita». Anzi, a dire il vero, il loro amore non ha mai varcato la soglia della profondità dell’essere; e infatti, come ricorda Conrad, essi «non sono capaci di una vera intimità più di quanto non lo siano due animali che si nutrono alla stessa mangiatoia, sotto lo stesso tetto, in una stalla di lusso». Questa fittizia esistenza, simboleggiata, all’inizio del racconto, dalla visione di una City ordinata, sicura, regolare negli interstizi urbani, viene bruscamente interrotta da una sconvolgente rivelazione. L’uomo, al ritorno da una giornata lavorativa, scopre nell’elegante spogliatoio, circondato da specchi e da luci, una lettera della moglie, lasciata per lui su un tavolino, nella quale la donna, con poche parole essenziali, gli comunica di essere fuggita col suo amante, un poeta conosciuto in uno dei tanti ricevimenti tenutisi proprio nella loro lussuosa abitazione.

La notizia giunge come una tempesta improvvisa e dissolve ogni punto di riferimento nell’esistenza di Hervey, che, fino a quel momento, sembrava saldamente ancorata a princìpi inossidabili, incorruttibili. In quel momento di totale incertezza, egli si trova ad evocare un’immagine di precarietà che spalanca tutti gli abissi dell’animo umano («essi erano come due abili pattinatori che volteggiano sul ghiaccio solido per l’ammirazione degli spettatori, ignorando con disprezzo la corrente nascosta, la corrente irrequieta e oscura; la corrente della vita, profonda e liquida»). E per la prima volta gli si aprono dinanzi inaspettati squarci sull’impossibilità d’una reciproca comprensione nella vita di coppia, come se quel ghiaccio si fosse spezzato sotto il suo peso.

Conrad in questo racconto, stranamente rifiutato dalle riviste più in voga dell’epoca (dal Cornhill Magazine al Blackwood’s Magazine) e poi pubblicato, nel 1898, nella raccolta Racconti dell’inquietudine, sembra collocare, seppur in nuce, alcune delle sue tematiche più famose, aprendo alla grande parabola dell’insondabilità della mente coagulata nella figura di Mr. Kurtz (Cuore di tenebra, è strettamente coevo). E lo fa con la grande abilità che ha già mostrato nell’analisi dell’abbandono amoroso subìto dal protagonista de La follia di Almayer, del 1895, avvicinandosi alla ricerca lucidissima dei meccanismi passionali e repressivi che caratterizzano — e condizionano — il nostro istinto.

In Il ritorno i pensieri (ma anche i fatti) si concentrano nel giro di cinque/sei ore (dal rientro a casa di Hervey, con l’immagine dello spogliatoio, fino allo scoccare della mezzanotte, con l’immagine della camera da letto). Giacché, poco dopo la scoperta della lettera, assistiamo al rientro della moglie, che si è resa conto di commettere un errore e che, dopo aver deciso di tornare alla famiglia, confessa di non aver fatto altro che sognare una relazione impossibile. Questa la trama minimale, che appare come un pretesto per analizzare lo scontro di due personalità solo apparentemente antitetiche. Infatti, attraverso un dialogo intenso, fatto di affermazioni e di sospensioni, di momenti d’ira e di abbandoni, di parole sottintese e capaci di trafiggere, si va configurando il passaggio, nella mente di Hervey, da una struttura razionale e controllata ad una “area” incontrollata e grigia.

Ed ecco la scena cui si accennava all’inizio, accanto al letto che simboleggia la sacralità del matrimonio: quando il fuoco del camino si proietta sulle pareti, coinvolgendo in quel bagliore scarlatto la luce di una lampada col paralume seta-cremisi. In quel momento in cui tutto si incendia, Hervey sperimenta il mistero dell’individualità di coppia, della solitudine estrema dello spirito. Quella donna che ha davanti a sé è un mistero inconoscibile, un enigma. E di fronte a questo mistero non esiste convenzione che tenga. Né possesso. In quei riverberi rossastri noi riconosciamo il crepuscolo del Vittorianesimo, allo scadere del secolo XIX. E fuori dalla finestra, Hervey, bruciato da questa sconvolgente esperienza, intravede ora una Londra diversa, caotica, disordinata, pullulante di case oscure («sembravano tutte dimore del tormento e di una folle illusione»). Una splendida impalcatura ormai destinata a crollare.

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