Tra le non molte cose che restano da fare ai critici letterari italiani c’è forse da rimettersi all’opera sulla storia della ricezione di alcuni classici della nostra tradizione. Non alludo, tuttavia, a un semplice aggiornamento di quelle storie della critica su un autore che un tempo erano prerogative dell’italianistica: piuttosto a un lavoro che, più che compendiare sistematicamente la letteratura secondaria (servizio per altro prezioso e utilissimo), rivisiti alcuni momenti cruciali e culturalmente rilevanti di una genealogia interpretativa, disveli i risvolti ideologici dell’uso pubblico che è stato fatto di poeti e romanzieri, documenti le stratificazioni esegetiche che, non di rado, hanno finito col seppellire o peggio col tradire tendenziosamente i dati testuali, magari proprio mentre l’autore veniva innalzato al rango di eroe nazionale.
Se, specie per certi scrittori e per determinate epoche, si farebbe luce su aspetti della storia politica e culturale del Paese ancora poco esplorati (si pensi al recente Danteum. Studi sul Dante imperiale nel Novecento di Martino Marazzi, Cesati 2015), d’altro canto la decostruzione della ricezione di un classico può arrivare a restituirci davvero “come nuovo” un corpus che credevamo ormai inservibile, eroso dalle troppe e troppo condizionanti letture.
Rispetto a queste premesse, la monografia Carducci, scritta con passione coinvolgente da Francesco Benozzo per la collana Sestante dell’editore Salerno, si rivela un testo esemplare, quasi emblematico. Non è la prima volta che un numero della serie diretta da Andrea Mazzucchi, ancorché deputata ad accogliere cospicui e dettagliati medaglioni sui nostri maggiori piuttosto che ricerche specialistiche, si rivela uno spazio aperto all’innovazione (valga per tutti il Verga appena licenziato da Gabriella Alfieri); tuttavia, la sfida dello studioso emiliano di ridare vita a quell’autore che, forse più di ogni altro, ha patito una precoce quanto esiziale, mortifera monumentalizzazione, nonché una canonizzazione scolastica tra le più infelici, era particolarmente ardimentosa, e nondimeno può considerarsi vinta.
Per ponderare la scrupolosa, metodica irriverenza con la quale Benozzo ha condotto il suo scavo filologico, per restituirci un Carducci finalmente terso da incrostazioni critico-ideologiche, probabilmente si dovrebbe principiare la lettura del libro dall’ultimo capitolo: «Sono superbo, iracondo, anarchico»: leggere Carducci al di là del carduccianesimo. In queste pagine Benozzo ricostruisce (e al contempo demolisce) un tracciato ininterrotto di «addomesticamento», avviatosi già con le commemorazioni ufficiali all’indomani della morte (16 febbraio 1907), volto a costruire prima «un’immagine epurata di Carducci», quindi a farne un precursore del nazionalismo e del fascismo in una serie di rivisitazioni «truffaldine», «oltraggiose», «pornografiche», fino agli anni della ’contestazione’, «durante i quali venne spontaneo, da parte di una critica letteraria che aderiva sbadigliante, ostentandolo in ogni occasione, a un marxismo di facciata, rispolverare l’affrettato e presuntuoso giudizio di Natalino Sapegno, secondo il quale “Carducci è un poeta minore” amato dall’“Italia peggiore”».
Pagine che ben si contemperano con quelle dedicate alla vita del poeta di Valdicastello, che esaltano il libertario, rivoluzionario, non conciliato Carducci (testimone di difesa nel processo all’ex allievo anarchico-insurrezionalista Andrea Costa come in quello al giovane socialista Giovanni Pascoli; sdoganatore nell’uso comune dalle parola ’compagno’, nel testo di una lapide commemorativa per un militante anarchico assassinato), e che insistono in una suggestiva corrispondenza con la biografia - parallela, è il caso di dire - di Mark Twain.
Ma sarebbe fuorviante ritenere che Benozzo si sia limitato a costruire un’antiprosopopea carducciana: altrettanto innovative sono le parti del libro dedicate alle raccolte liriche, nonché alle prose (che saldando comunque tutti i debiti contratti con predecessori quali Pasquini, Carpi, Spaggiari). Almeno due chiavi di lettura si rivelano decisive e assai efficaci: la sussunzione del medioevo carducciano a paradigma ed emblema di un’alterità profondamente sentita e vissuta e la ’inattualità’ costitutiva di raccolte come Odi barbare e Rime e ritmi, a conti fatti ben più oltraggiosa agli occhi dei tanti «fomentatori nervosetti delle avanguardie successive».
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