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La centralità degli anni 80

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La centralità degli anni 80

«Io non voglio cancellare il mio passato, perché nel bene o nel male mi ha reso quello che sono oggi». L’incipit di questo noto aforisma di Oscar Wilde andrebbe preso a riferimento quando si cerca di interpretare l’attuale situazione in cui versa l’economia italiana. Infatti, se la nostra economia cresce sempre meno e la produttività ristagna da oltre vent’anni, le cause vanno ricercate non tanto nel ventennio presente, quanto in quello che l’ha preceduto. Negli anni Settanta e Ottanta si è del resto accumulato, per dirla con Carlo Cottarelli, il «macigno» del debito pubblico che ci schiaccia: dal 35% del Pil nel 1970, livello inferiore alla media europea, al 100% alla fine del decennio Ottanta, non molto lontano quindi dai livelli attuali. La nascita ed espansione del welfare state, l’ampliamento del perimetro di azione dello Stato, l’avvento di un assetto istituzionale articolato in Regioni, un uso “politico” della spesa pubblica per favorire il consenso in una società scossa dall’«autunno caldo» e dal terrorismo brigatista: sono le ragioni che spiegano questa crescita impetuosa, insieme al ricorso facile al deficit spending favorito da rendimenti reali negativi su BoT e BTp. Ma i Settanta e Ottanta non vanno ricordati solo per le finanze statali fuori controllo. Sono anni di grandissima trasformazione e modernizzazione del nostro Paese, che troverà un posto tra le maggiori potenze industrializzate.

Alcune pregevoli pubblicazioni uscite di recente ci permettono di tratteggiare luci e ombre di questo ventennio. Marco Magnani, in Il caso Sindona. Biografia degli anni Settanta (Einaudi, 2016), ci offre uno spaccato molto particolare del decennio passato alla storia per gli shock petroliferi e il rapimento e uccisione di Aldo Moro più che per lo Statuto dei lavoratori. Lo fa ripercorrendo in modo magistrale le vicende del «fiscalista di Patti», emblematiche di un’Italia sotto l’influsso dei poteri occulti e delle trame eversive, dove le grandi banche sono pubbliche e la vigilanza sui mercati non è ancora adeguatamente sviluppata. Un’Italia dove il ritmo di crescita del Pil si è dimezzato (al 3,5% in media d’anno) rispetto ai tempi del «miracolo economico» e la rincorsa tra svalutazioni del cambio, aumenti dei salari e dei prezzi alimenta una forte spirale inflazionistica. Nel 1981 avviene il “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, ma l’obiettivo di imporre una maggiore disciplina fiscale viene di fatto mancato e anzi, venendo meno il finanziamento monetario del deficit, si dà il via all’aumento della spesa per interessi.

Intanto il clima generale sta per cambiare repentinamente. Ai campionati mondiali di calcio in Spagna, dopo aver battuto il mitico Brasile, l’11 luglio del 1982 l’Italia di Bearzot batte la Germania 3 a 1 e si guadagna il terzo titolo mondiale. È l’inizio degli anni 80 “da bere”, delle cui contraddizioni ci offre un quadro mirabile Paolo Morando in Anni ’80. L’inizio della barbarie (Editori Laterza, 2016). Sul piano economico la crescita del Pil accelera ma il tasso di disoccupazione sale fino a raggiungere il 12% alla fine del decennio. Si espande la macchina statale, con la spesa pubblica che viaggia verso il 50% del Pil. Il Paese vive al di sopra delle proprie possibilità e così arriva la crisi del 1992: un anno spartiacque nella storia d’Italia, con la svalutazione della lira e l’uscita dallo Sme cui si aggiunge l’onda di «mani pulite» che segnerà il passaggio definitivo alla seconda repubblica. Anni 80: un grande sogno o il germe delle crisi? è il dilemma che Bruno Vespa ci ha riproposto in una delle ultime puntate di Porta a Porta (28 aprile). Una domanda del tutto legittima perché, come io credo, molti dei mali che affliggono il Belpaese hanno i loro germi negli anni Settanta e Ottanta: il macigno del debito pubblico, una macchina statale asfissiante, il consociativismo e il capitalismo relazionale, un mercato del lavoro asfittico e la successiva nascita di quella che un osservatore attento come Francesco Delzio ha chiamato «generazione Tuareg».

Non tutti sarebbero d’accordo con questa tesi. Per un protagonista degli anni Ottanta come Paolo Cirino Pomicino, autore brillante de La Repubblica delle giovani Marmotte. L’Italia e il mondo visti da un democristiano di lungo corso (Utet, 2015), non c’è partita tra prima e seconda repubblica. Da un lato c’è quella autorevole che ha sconfitto il terrorismo brigatista e l’inflazione; dall’altro quella di oggi, «stanca e assediata da populismi, vocazioni autoritarie e incultura politica». Tant’è che dopo il ’92 vi è «stato il crollo della nostra economia e l’assenza di una politica industriale, sulla base della nuova divisione internazionale del lavoro». Il dibattito è dunque aperto ma l’invito è a rileggere con attenzione il ventennio Settanta-Ottanta per capire meglio l’oggi, soprattutto ora che la distanza del tempo ci consente una maggiore obiettività. Del resto, per riprendere Oscar Wilde, «Io ringrazio me stesso per aver trovato sempre la forza di rialzarmi e andare avanti, sempre».

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