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La nonna del lago

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La nonna del lago

Pessimi costumi. Da sinistra, Giusi Merli, Juan Diego Flórez, Varduhi Abrahamyan
Pessimi costumi. Da sinistra, Giusi Merli, Juan Diego Flórez, Varduhi Abrahamyan

Al filologico Rossini Opera Festival, quest’anno è tutto uno scambio di sguardi all’indietro, di rivissuti, di memorie: in particolare nella Donna del lago, cardine nelle prime edizioni della renaissance pesarese. Era il 1981, e chi presenziò ricorda ancora quell’esperimento, milanesissimo e griffato, con Maurizio Pollini sul podio e la regia di Gae Aulenti. Trentacinque anni dopo, il ribelle intelligente Damiano Michieletto (allora seienne) firma per il Rof una nuova regia della Donna e la reinventa radicalmente.

Così nel tempio della filologia il lago viene prosciugato, le donne raddoppiano, il tempo si comprime, sovrapponendo passato e presente. Anche il titolo a questo punto deve cambiare: a piacere si può scegliere tra La donna senza lago (per gli ecologisti), Le donne del lago (per le femministe), L’anziana sul lago (per la terza età, che qui spopola). Metricamente e concettualmente più corretto vince su tutti La vecchia del lago, detto senza offesa e anzi come puro dato di cronaca. Perché al centro della lettura di Michieletto c’è una nonna: archetipo della nonnina italiana, magretta, crocchia e abitino a fiori. Mezzo secolo dopo, rivive la storia d’amore che avrebbe potuto cambiarle la vita. In tutti i sensi, perché l’uomo allora rifiutato era (in incognito) Giacomo V, re di Scozia.

Il soggetto affiora come uno dei più umbratili e in filigrana, nel mondo dell’opera. Sottile e declinato al femminile, con ciò confermando sia la intuitiva sensibilità culturale di Rossini (altro che il dozzinale ghiottone) sia la sua concreta vicinanza con il lato inspiegabile delle donne. Tra l’altro, il libretto di Leone Tottola, dal romanzo di Walter Scott, sarebbe da incoronare come esemplare, controcorrente nell’Ottocento oppressivo per la libertà e il rispetto degli affetti (e siamo nel 1819, a Napoli). Il re è fascinoso sì perché ama l’avventura e la caccia solitaria, ma soprattutto perché rinuncia a lei. Illuministicamente avverso a ogni forma di violenza: «Io del suo cor tiranno?», dice in un a parte sublime, scolpito nel marmo. E Juan Diego Flórez, che è l’interprete ideale nel ruolo dell’aristocratico malinconico, mani in tasca, impossibile da appagare, in questo ennesimo trionfo a Pesaro - dopo vent’anni di successi - è sembrato ancor più toccante e incisivo. Meraviglioso, certo, una trina nel pirotecnico belcanto. Ma nuovo e ancora più magnetico nelle pieghe della parola. Nella restituzione dei messaggi nascosti e gettati chiusi in una bottiglia. Senza ostentazione, da autentico rossiniano.

Promossa ma con riserva la nuova Donna che ricorda il lago di Michieletto: so so, come direbbero i tedeschi, che vengono a Pesaro da 37 anni e continuano a insistere col Rosini. Splendida infatti è la costruzione psicanalitica della scena di Paolo Fantin, a scatole incastrate, come pagine della mente: perfette da sollevare, staccando il presente per scivolare nel passato. In modo che un tinello triste, di coppia senza parole, due sedie, un tavolino e l’opprimente tappezzeria azzurrina a disegni, diventi il gigantesco salone dei sogni. Della giovinezza. Col lettino da fanciulla, le grandi vetrate. Ma dove ormai il tempo è passato. Invasivo e distruttore, con la natura selvaggia a corrompere e coprire tutto, dalle scalinate che portano nel nulla alle finestre spaccate. Si sollevano i fogli silenziosi dei ricordi, mentre filano verso il basso lunghe radici inquiete.

Le riserve vanno all’aspetto didascalico di questi ricordi: che la vecchina (la perfetta Giusi Merli, presa dalla Grande bellezza) sia la donna del lago, un po’ cresciuta, lo si capisce immediatamente. Non c’è bisogno di metterla nel lettino dei due amorosi, in un poco estetico ménage a tre, e poi di farle reinfilare l’anello al re, e poi di renderla ombra pedante di ogni gesto di lei. Nel teatro di prosa certo calligrafismo funziona. Nell’opera no.

Non si spiega poi il doppio sogno, che diventa un incubo, perché ai fantasmi della donna si sovrappongono quelli di lui, Malcom, sposato per fedeltà a un ideale e diventato dalla aitante mezzosoprano Varduhi Abrahamyan (profonda, potente, un poco nasale) un barbuto triste, che ha capito tutto. Che un duetto si trasformi in quartetto non ci sta. Il pretesto del racconto a rovescio, poi, già assai frequentato al cinema, sta diventando un topos a teatro. E Michieletto lo aveva già utilizzato nel Falstaff alla casa di riposo. Fingere che, diventa un escamotage estraneo all’opera. Che è finzione vera.

Infatti si divaricano su due piani divergenti il manierismo della scena e la sorprendente affettuosità, cesellata in mille dettagli, sempre espressivi, della concertazione di Michele Mariotti: nel gesto talora, e in certi modi della mano sinistra, vuole essere un “abbadino”. Ma oggi può anche sganciarsi da questa rassicurante eredità. Perché sta sbocciando con personalità spiccata, sua: fisica sul suono, solare, alata. Mai meccanica, tanto che questo Rossini, ventisettenne, non pare nemmeno Rossini, liberato dagli ingombri delle ripetitività, dei ritmi ossuti. Portato in una affascinante dimensione pre-romantica, europea: di barcarole mollemente ondeggianti, acquatiche, di clarinetti e corni evocativi, spaziati, coi tempi morbidi, dai succosi impasti.

In perfetto dialogo con Orchestra e Coro del Comunale di Bologna, a tappeto intrecciato con le voci. Difficile dire chi sia la primadonna: il cuore non può che battere per Flórez (nonostante il brutto suo e degli altri costume, di Klaus Bruns). Michael Spyres, il rivale, gli dà filo da torcere quanto a squilli. Tuona Marko Mimica, Duglas. La bella Salome Jicia, Elena, è un bell’acquisto del Rof, vincente per malinconia: una tacca in più di metronomo e il Rondò finale sarà perfetto. Si esulta anche con battipiedi in corso d’opera ed è trionfo alla fine per tutti. Ma l’Adriatic Arena è più bella quando contesta.

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