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Roma smitizzata, fin troppo

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elzeviro

Roma smitizzata, fin troppo

Il suicidio di cleopatra. Un quadro di Guido Cagnacci del 1660 circa
Il suicidio di cleopatra. Un quadro di Guido Cagnacci del 1660 circa

Che cos’è la storia romana? A furia di narrarla e rinarrarla fin dall’antichità – nei grandi excursus cronologici, nei libri di scuola, nei trattati rinascimentali sul potere, nelle pitture, nei fumetti, nei romanzi e nel cinema – questa storia crediamo di possederla; ci viene incontro in periodi e in immagini consolidati. Accade in fasi, come la vita di un individuo. Prima i re, poi la repubblica e infine l’impero. E in ciascuna fase lotte e rivolgimenti e trasformazioni, e tanto eroismo, in patria e sui campi di battaglia; e il mondo intero che si inchina a una sola città; e nemici da ogni parte: i Sanniti, i Galli, i Cartaginesi, i Parti… E la conquista della Grecia e dell’Oriente…

Ma che cos’è davvero questa storia romana? La vicenda di una potenza irresistibile, l’avverarsi di una missione civilizzatrice, una galleria di esempi morali e di personalità titaniche, uomini e donne, un affresco di modelli politici, un romanzone buono per tutte le epoche e per tutte le età della vita, un repertorio di leggi e di costumi, la matrice dell’occidente? Una grandiosa decadenza? Quanto è eco di echi e quanto voce originaria? E quanto il suono di questa voce non è distorto dagli strumenti della trasmissione? Insomma, quanto di vero sappiamo o possiamo sapere? E come tenere insieme in un racconto unificante almeno dodici secoli di azioni, istituzioni, pratiche civili e religiose, leggi, letteratura, vita quotidiana? E i protagonisti li vedremo mai in faccia, fosse anche per un breve momento rivelatore, o dovremo sempre e solo accontentarci di simulacri impalliditi e deformati dagli specchi dell’ideologia o della fantasia?

Questi fondamentali interrogativi danno più o meno implicitamente una direzione al libro dell’inglese Mary Beard, SPQR, che ha per sottotitolo l’espressione alquanto neutra «Storia dell’antica Roma». Anche questa celebre storica di Cambridge propone un racconto cronologico piuttosto che una discussione di argomenti, i quali, d’altronde, non mancano (economia, diritto, religione, architettura), completando qua e là la narrazione dei fatti. Con abile mossa l’autrice parte dal consolato di Cicerone, ovvero da quello che per lei rappresenta uno dei momenti clou della storia romana, il famoso duello tra l’eccellente oratore e Catilina. In tal modo lettori e lettrici si trovano subito nel vivo delle cose, non devono allungare lo sguardo avanti di troppi secoli, con il rischio di scoraggiarsi, e si familiarizzano immediatamente con questioni di primaria importanza: le forze in gioco, le prerogative del regime repubblicano, il ruolo degli individui. Si fa quindi un salto indietro e si arriva alle origini, alla monarchia. Segue il racconto dell’età repubblicana, caratterizzato da importanti conquiste territoriali; si arriva al primo secolo, ci si sofferma sulle guerre civili (Cesare e Pompeo, Ottaviano e Antonio) e si conclude con la nascita dell’impero e la descrizione delle prime tre dinastie imperiali.

Non si creda che la narrazione sia una serena esposizione di dati. Mary Beard racconta criticando e mettendo immancabilmente in dubbio qualunque vulgata. È convinta che il passato di cui i romani ci forniscono numerosi fonti scritte sia una ricostruzione anacronistica, la proiezione all’indietro di un punto di vista moderno, oppure una visione unilaterale, la versione della parte vincente o di chi ha avuto la possibilità di dire l’ultima parola. Chi ha la capacità di leggere queste cinquecento pagine noterà che il discorso non fa che smitizzare e sminuire, sfumando, elidendo, puntando il dito verso inestricabili ombre, e in questo troverà il suo aspetto più interessante.

Io ci ho trovato anche un vezzo irritante. Perché, per esempio, quando si parla della celebre battaglia del 48 che diede a Cesare il primato su Pompeo il luogo del combattimento è indicato come una città della Grecia orientale e non se ne vuole fornire il nome, Farsalo, con quello che un tale toponimo ha significato per Roma? Il primo triumvirato, cioè l’alleanza privata tra Cesare, Pompeo e Crasso, è detto “la banda dei tre”. E del Rubicone, l’attraversamento del quale siglò le pretese dittatoriali di Cesare, si sottolineano le misere dimensioni e non la valenza simbolica. E le guerre italiche alla fine non sono state guerre vere e proprie ma scaramucce, Cleopatra non si è suicidata col serpente (gli egittologi avrebbero da ridire), Azio, con cui Ottaviano diventava in pratica il primo imperatore di Roma, «fu uno scontro piuttosto modesto», e via dicendo.

Concomitantemente i cattivi sono riabilitati e i buoni messi sotto accusa. Cicerone, appunto, denigrò il suo avversario, Catilina, al solo fine di darsi l’equivalente di un trionfo militare che non gli sarebbe arrivato in combattimento. E su Silla, famigerato per le sue purghe, si sorvola. La stessa crudeltà di certi imperatori è ridotta a dettaglio trascurabile.

Difficile trovare un saggio di storia che si impegni tanto estensivamente a esercitare la diffidenza. Questa è senz’altro una bella lezione per chiunque. Le fonti, infatti, vanno capite in quanto fonti (così come in laboratorio bisogna sapere che si sta operando in laboratorio e non in natura). Nessun testimone è puro, mai, né una volta né oggi; c’è sempre un contesto rispetto al quale la testimonianza parla. Resta, però, l’impressione che l’anacronismo rimproverato agli storici romani sia proprio della stessa Beard; un anacronismo all’inglese, che misura sempre tutto su pretesi criteri di verità odierni, che accorcia al massimo le distanze dall’oggetto indagato, che abbassa per partito preso, senza riguardo per sensibilità e modi di rappresentazione diversi. Perché, infatti, sottolineare la piccolezza del Rubicone? Perché negare grandiosità ad Azio? I fatti sono tali anche per le risonanze metaforiche che propagano e di cui si trova traccia nelle scritture e nelle opere d’arte. Un fatto non è cosa in sé, ma evento ed effetto. Far storia significa anche dire come la storia è stata fatta nel racconto di altri. E questo la Beard lo evita, speculando più che non producendo prove contrarie. Non a caso non dà alcuna importanza alle testimonianze letterarie, e quando la letteratura è invocata, commette spropositi: i pensieri di Marco Aurelio, sulla cui profondità basterebbe leggere i saggi di Pierre Hadot, sono liquidati come “clichés”; il genio psicologico di Tacito messo alla berlina; i Tristia di Ovidio, il lamento sull’esilio più emblematico di tutti i tempi, scambiati per opera licenziosa; niente sulle Metamorfosi di questo poeta, vertice della cultura augustea con l’Eneide di Virgilio; niente su Lucano, che compose un poema sulla benedetta Farsalo. E, a proposito di Eneide, Didone in almeno cinque punti si sostiene che si uccise nelle fiamme di un rogo, quando chiunque ricorda che si è buttata sulla spada regalatale da Enea (il rogo c’è, ma servirà a bruciare il cadavere).

Pur con questi difetti SPQR costituisce una bella prova intellettuale e stilistica; un invito a penetrare con serietà nei momenti fondanti della nostra civiltà, oltre la scorza di vecchie versioni scolastiche e delle facili storielle di consumo.

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