Prima c’era l’infanzia: «Il tempo allora non voleva dire niente. I giorni arrivavano con nuvole appese nel cielo piene di tazze di polvere nella stagione secca, e il sole durava fino a notte. Era come se una mano tracciasse disegni sfuocati nel cielo durante la stagione delle piogge, quando l’acqua cadeva per sei mesi ininterrotti».
C’erano sei fratelli e la hỳbris di un padre che nutriva verso di loro aspettative spropositate per quello che è la Nigeria, che è il mondo. Poi un giorno, con il volto contratto «come quando voleva scatenare dentro di noi i cani della paura» il padre disse: «Da oggi vado a Yola, e non voglio che voi ragazzi diate pensieri a vostra madre». Da Akure era stato trasferito in una città più pericolosa, dove erano frequenti esplosioni di violenza verso la loro tribù, gli Igbo. Fuori discussione di spostarsi tutti: sarebbe tornato lui ogni due settimane.
Fu così che Ben, 9 anni nel 1996, e i suoi tre fratelli maggiori divennero pescatori. Negli interminabili pomeriggi liberi dalla costosa scuola privata, quando la madre era al mercato coi più piccoli a vendere frutta, di soppiatto si recavano all’Omi-Ala, un fiume malfamato. «A lungo tradito dagli abitanti della città di Akure come una madre abbandonata dai suoi figli, un tempo era stato un fiume puro che forniva agli uomini primi arrivati pesce e acqua pulita da bere. Si diceva che l’Omi-Ala, come molti fiumi simili dell’Africa, fosse stato un dio; la gente lo venerava». Le cose cambiarono «quando dall’Europa vennero i colonialisti e introdussero la Bibbia, che si prese i fedeli dell’Omi-Ala; e la gente, ormai in gran parte cristiana, cominciò a considerarlo un luogo cattivo. Una culla insozzata». Diventò un posto di cupe dicerie, di riti idolatri, di carcasse di animali e di cadaveri mutilati. Imposto il coprifuoco, il fiume fu abbandonato.
Ma per quei ragazzini armati di canne, lattine arrugginite, insetti morti e vermi macilenti le sue erano rive di pura libertà, giorni indimenticabili di scoperte collettive e sfide interiori in cui si attorcigliavano la felicità e l’orrore di crescere, come quando cantavano a squarciagola davanti alla «spirale di morte del pesce». Fu su quelle sponde che il tempo cominciò a contare. Denunciati da una vicina furono puniti al ritorno del padre a suon di frustate, ben 20 a Ikenna, quindicenne, il maggiore. In quelle settimane ebbe inizio la sua metamorfosi. Si allontanò dai fratelli, schivo e iroso come un animale malato, si rivoltò contro la madre arrivando a buttarla a terra, sbatté la porta senza fare ritorno per la notte. I bambini furono sconvolti dell’enormità della ribellione di Ikenna, e anche la madre, incapace di accettare un distacco non così misterioso per il lettore, visto che un filo di barba gli era affiorato sul mento.
Nonostante le suppliche della moglie il padre non fece ritorno e l’adolescente sempre più inquieto lasciò «tracce devastanti di sé che ebbero effetti duraturi» sulle vite dei ragazzini. Infine la madre riuscì a estorcere ai più piccoli quella che tutti credevano fosse la spiegazione: un giorno, di ritorno dall’Omi-Ala, i pescatori avevano incontrato un uomo sdraiato sotto un mango come morto, i frutti marci attaccati al suo corpo vestito solo di sporco. Era Abulu, matto erotomane e visionario le cui predizioni, avendone azzeccate un paio, erano temutissime nel quartiere, nutrendo «la paura del destino oscuro in attesa». Dopo un’esibizione inquietante aveva scagliato una profezia di morte su Ikenna: sarebbe stato ucciso da un fratello. La notte calò sui ragazzini trasformando «gli uccelli annidati nell’albero di mango in oggetti neri indistinguibili che ci passavano accanto» mentre «le colline remote si erano confuse col cielo scuro come se non ci fosse separazione tra il cielo e la terra». Nel buio dei giorni che seguirono la suggestione di quelle parole inascoltabili si amplificò. Lentamente i riferimenti razionali si allentarono e nella solitudine di Ikenna perse consistenza il confine tra sogno e veglia. La paura, alimentata dalla creduloneria diffusa, dalla fragilità dell’adolescenza, dallo sconvolgimento dell’equilibrio familiare infettò l’amore per i fratelli e catturò la sua mente, nonostante i tentativi di ribellione (proclamandosi ateo, per esempio, cosa che inorridì i suoi genitori e lo isolò ulteriormente). Più si batteva contro il presunto fato, legittimandolo, più se ne sentiva imprigionato. «Quando la paura si impossessa del cuore di una persona la impoverisce» osservò dapprima Ben, ma presto la follia di Ikenna iniziò a riverberarsi sui fratelli e sulla superstiziosa madre. Il terrore li inghiottì, un vortice ossessivo, annichilente, che incanala i pensieri e non dà scampo perché ogni accadimento è visto come segnale di una catastrofe il cui realizzarsi appare l’unico esito possibile. E così, in un magistrale crescendo di pathos, i ragazzi attoniti vedono la nefasta visione compiersi come se fosse agìta da una forza esteriore.
I pescatori è una tragedia igbo. Non sorprende che Chigozie Obioma, il neanche trentenne autore di questo potente esordio destinato a diventare un classico della letteratura nigeriana si sia nutrito di Eschilo, Euripide e Shakespeare. Ma anche di Chinua Achebe e Ngũgĩ wa Thiong’o, «maestri nell’unire la classica forma del romanzo anglosassone con la tradizione orale africana, drammatizzando il conflitto tra modernità e tradizione», ha osservato lo scrittore Helon Habila.
Metafora della Nigeria dissanguata dalle guerre fratricide e incapace di vedere un futuro al di là dei cupi presagi, questa famiglia che parlava tre lingue senza capirsi troppo viene destabilizzata da Abulu, il pazzo, il cui parallelismo con il nemico europeo nel Crollo di Achebe è reso esplicito dall’autore. Elegia di una promessa mancata, la narrazione si chiude però con un’immagine di speranza: l’incontro, sei anni dopo, tra Ben e i fratellini minori, lattanti all’epoca dei fatti. «David e Nkem erano aironi: gli uccelli bianco lana che compaiono a stormi dopo una tempesta, le ali immacolate, le vite intatte e incolumi. Anche se diventarono aironi nel cuore della tempesta, emersero alla fine con le ali tese nell’aria, quando tutte le cose come le conoscevo erano cambiate».
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