Da molti anni Johann Gottlieb Fichte non è più al centro degli studi e delle dispute filosofiche. Eppure la sua opera merita ampiamente di essere ripresa e discussa, se si vuole intendere davvero la storia etico-politica tedesca dalla fine del Settecento all’unificazione bismarckiana della Germania e oltre. Nel pensiero di Fichte, infatti, sono presenti molti motivi statalistico-nazionalistici, che avranno sviluppi drammatici nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle: il Novecento.
Questa mia affermazione può forse stupire. Il pensiero di Fichte non si forma infatti a contatto con la Rivoluzione francese, e non inizia con una ferma difesa di essa? Fu lo stesso Fichte, del resto, a sostenere un’affinità globale e profonda tra la Grande Rivoluzione e la propria filosofia: «il mio sistema – scrisse in una lettera a Baggesen del 1795 – è il primo sistema della libertà: come quella nazione [la Francia] scioglie l’uomo dalle catene esterne, così il mio sistema lo scioglie dalle catene delle cose in sé, dall’influenza esterna, e lo pone nel suo vero fondamento primo come essere indipendente».
Del resto, l’influsso di Rousseau è ben percepibile nella costruzione politica di Fichte. Lo Stato nasce da un contratto di unione di tutti con tutti, che dà vita a una totalità in cui il singolo è legato stabilmente all’insieme. È vero che Fichte non teorizza la separazione dei poteri, in quanto per lui il potere esecutivo comprende in sé anche il potere giudiziario e quello legislativo, poiché, se il governo dovesse sottomettersi ai verdetti dei giudici, sarebbe loro sottoposto; mentre il potere legislativo ha come suo compito non quello di creare nuove leggi, bensì quello di applicare la legge fondamentale, che è data dalla coesistenza giuridica degli individui.
È evidente che in questo modo il potere esecutivo viene ad avere una enorme forza (governa, emette ordinanze, controlla la giustizia), e si configura di fatto come un governo assoluto. Ma il potere esecutivo trova un significativo contrappeso nell’eforato, che emana direttamente dalla comunità. Gli efori, infatti, possono sospendere un procedimento giudiziario, così come possono sollevare dal loro incarico tutti o alcuni membri dell’esecutivo. Gli efori, poi, convocano la comunità, e affidano a essa il giudizio ultimo: questo giudizio è infallibile, perché il popolo riunito è il depositario della razionalità politica.
Si avverte chiaramente, in questa costruzione fichtiana, un impasto, per così dire, di motivi autoritari e di motivi democratici. Ma successivamente, nell’evoluzione del filosofo tedesco, saranno i motivi autoritari ad avere la prevalenza. Il testo decisivo, in questo senso, è Lo Stato commerciale chiuso (1800), che viene ora riproposto da La Vita Felice. In questo famoso saggio Fichte delinea uno Stato che interviene assai largamente nella vita economica. Le classi che costituiscono tale Stato (i proprietari terrieri, gli artigiani e i commercianti) si impegnano, con il controllo statale, a usare e a consumare i loro prodotti. E se i produttori o proprietari terrieri finiscono per avere una posizione di vantaggio rispetto alle altre classi, lo Stato ristabilisce subito l’equilibrio. Allo stesso modo lo Stato stabilisce i prezzi delle merci, decide il numero di coloro che si dedicano ai mestieri, fornisce strumenti di lavoro agli agricoltori, abitazioni, vestiario, eccetera.
Lo Stato commerciale chiuso (che è tale perché in esso i governanti devono porsi come obiettivo una piena autarchia, e di conseguenza i privati non possono commerciare con l’estero) è chiaramente uno Stato interventista-autoritario, in cui la libera iniziativa dei cittadini è pressoché annullata.
Questo modello autoritario si carica di motivi nazionalistici nei celebri Discorsi alla nazione tedesca (1807-1808). Naturalmente, non bisogna perdere di vista il fatto che con tali Discorsi Fichte reagiva alla dominazione francese sulla Germania. Ma in essi svolge un ruolo prepotente un popolo (Volk), anzi un «popolo originario» (Urvolk), il popolo per eccellenza: ovvero i Germani, che furono il ceppo originario delle nazioni dell’Europa post-romana. Qui ogni spunto democratico-liberale è scomparso, e Fichte incomincia un cammino che darà tristi frutti nella storia tedesca. Utilizzando alcuni risultati della linguistica romantica, il filosofo si propone di dimostrare la potenziale superiorità del popolo tedesco e la missione rigeneratrice che la storia gli ha assegnato. Infatti le popolazioni di stirpe germanica parlano una lingua «viva», mentre i popoli neo-latini si esprimono in lingue morte. Solo i Tedeschi producono una cultura autentica, fondata sull’unità di pensiero e azione, capace di estendersi a tutto il popolo; i popoli non germanici, invece, producono una cultura astratta e formale, limitata ai ceti più elevati. In altri termini – come ha osservato giustamente Massimo Mori nel suo libro La ragione delle armi – per Fichte soltanto i Tedeschi costituiscono un vero popolo e una vera nazione.
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