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L’antiquario del principe Umberto

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Arte

L’antiquario del principe Umberto

L’antiquario torinese Pietro Accorsi
L’antiquario torinese Pietro Accorsi

Le biografie e le autobiografie di antiquari e mercanti d’arte del Novecento zampillano spesso di notizie, curiosità e aneddoti. In questo ambito, interessantissimi sono, ad esempio, i profili e le imprese di Ambroise Vollard, Daniel-Heinrich Kahnweiler, Joseph Duveen, Daniel Wildenstein, Paul Rosenberg, Leo Castelli e Luigi Anton Laura. Stranamente però, sino a oggi, mancava un medaglione biografico su quello che molti considerano il più influente e abbiente antiquario italiano del Novecento: il torinese Pietro Accorsi (1891-1982).

A colmare la lacuna ci ha pensato Renato Rizzo che - lavorando d’archivio e raccogliendo testimonianze verbali di prima mano - ha tracciato un brillante profilo biografico del singolare personaggio, la cui vita privata e professionale è accompagnata da numerose “leggende”.

A cominciare dagli esordi, che sembrano usciti da un romanzo di Dickens. Il più ricco antiquario d’Italia, destinato a frequentare con disinvoltura re, aristocratici e magnati d’industria, era figlio del più profondo proletariato torinese: suo padre Curzio era un modesto portinaio e la mamma Angela una sartina. Pietro (e i suoi fratelli Emma, Paola e Celeste) conobbero il pane secco della povertà e condussero un’infanzia senza giochi e senza fiabe nell’angusta portineria di un palazzo seicentesco in via Po 55, di proprietà dell’Ordine Mauriziano.

Il “posto” di portiere in quell’antico stabile nel centro di Torino era giunto al padre Curzio dopo la nascita di Pietro e in modo del tutto inaspettato. Questo episodio (e molti altri in seguito) alimentarono la “leggenda” che il vero padre del futuro antiquario fosse in realtà un personaggio straordinariamente altolocato della Torino reale: niente meno che l’aitante Emanuele Filiberto, duca d’Aosta e cugino del re d'Italia, Vittorio Emanuele III.

La vicenda di questa paternità illegittima – che Pietro Accorsi mai confermò ma nemmeno smentì - è rimasta incerta e nell’ombra. Gli indizi raccolti da Rizzo nel libro sono tuttavia molti e significativi, a cominciare dal “posto fisso” di portinaio trovato all’inconcludente Curzio Accorsi, per passare ai misteriosi bonifici bancari versati a Pietro per sostenere l’avvio della attività di mercante d’arte, fino al fatto, non trascurabile, che Emanuele Filiberto ebbe nel 1931 il malore che lo porterà alla morte proprio in casa di Pietro Accorsi. A tutto ciò va aggiunto che Pietro – pur cresciuto in un’infima portineria - sviluppò tratti somatici, portamento e facilità di mondo davvero molto aristocratici.

Ma, a prescindere o meno dall’illustre nascita, Accorsi diede segni fin dalla fanciullezza di sapersela cavare da solo. A dodici anni, andando a scuola entrò in una bottega di robivecchi in via della Zecca e vide un piccolo ritratto. Soldi in tasca, ovviamente, non ne aveva, ma aveva con sé i libri di scuola legati con una cinghia. Offrì i libri e la cinghia in cambio del quadro e il robivecchi accettò. Pietro portò a casa trionfalmente il suo quadretto suscitando il disappunto dei genitori: questo sarà il suo primo “affare”, perché il quadro pagato coi libri e la cinghia si sarebbe rivelato un autografo di David. L’episodio infantile fu il primo segnale del fiuto innato per le cose belle e “giuste” che caratterizzerà tutta la carriera di Accorsi, rendendolo un personaggio leggendario tra collezionisti e colleghi.

Visto lo spiccato interesse per l’arte, Pietro venne iscritto a una scuola tecnica di Torino per diventare disegnatore. Finite le scuole, fu subito assunto alla Fiat proprio come disegnatore. Ma in fabbrica resistette solo sei mesi e diede le dimissioni. Il padre Curzio lo rimproverò aspramente: «Sei un incosciente, vuoi rinunciare a uno stipendio di 25 lire al mese?». «Ne guadagnerò di più facendo altro», fu la risposta. Pietro Accorsi terrà fede alla promessa.

A quindici anni esordì come robivecchi. Comperò un carrettino e girò da una botteguccia all’altra di Torino imparando l’arte di comprare e rivendere velocemente. Tutti i robivecchi della città cominciarono a conoscerlo e a intenerirsi per l’intraprendenza di quel fiolin. Il quale però, a differenza di loro, spendeva tutto il suo tempo libero visitando i musei di Torino e affinando, giorno dopo giorno, l’occhio e il gusto.

Questo affinamento sarà la carta vincente di Pierino Accorsi, insieme alla concezione che le cose belle bisogna andare a cercarle e non aspettare che arrivino. Così fece i suoi primi scoop: in val di Susa scovò un rarissimo letto originale del Quattrocento con dentro un vecchietto ammalato al quale Accorsi offrì in cambio un letto e un materasso nuovi di zecca. In una latteria di Borgo San Dalmazzo vide dei formaggi appoggiati su un piatto, entrò e comperò sia i formaggi che il piatto, il tutto per 50 centesimi: il piatto si rivelerà un capolavoro della ceramica torinese del Settecento, e oggi campeggia con onore nel Museo Civico di Arte Antica di Torino.

Vagando come un forsennato per Torino e il Piemonte, comprando e rivendendo alla velocità della luce, a sedici anni Accorsi è già in grado di mantenere tutta la sua famiglia. E pochi anni dopo, nel 1912, si può permettere di affittare un appartamento di sei vani al primo piano di via Po 55, nello stesso stabile in cui i genitori avevano gestito sino a quel momento la portineria. Intanto in banca arrivano “misteriosi” accrediti che gli permettono di sviluppare ulteriormente l’attività commerciale. Accorsi si reca a Parigi per allenare l’occhio su mobili e arredi del Settecento francese, e batte palmo a palmo tutte le botteghe d’arte antica della città. In questo modo porta in Italia vagonate di mobili destinati agli antiquari torinesi che vanno ad assieparsi allo scalo merci della stazione di Porta Nuova per aggiudicarsi, per primi, i pezzi migliori.

Allo scoppio della Prima Guerra mondiale, Pietro Accorsi – che ha l’età giusta per combattere – risulta tra i “miracolati”: parte a guerra quasi finita, non va al fronte ma a Verona e viene subito riformato. Anche in questa circostanza, il sospetto di una “mano” data dall’”alto” è più che legittimo.

La vera fortuna di Pietro Accorsi comincia tuttavia nel 1925, quando il principe ereditario Umberto di Savoia decide di venire a vivere a Torino. Tra il principe – che è un raffinato collezionista – e l’antiquario – che sa perfettamente trattare con i personaggi più altolocati - scatta un’intesa perfetta, destinata a tramutarsi in una sincera amicizia (Accorsi darà sempre del tu a Umberto chiamandolo familiarmente “Beppo”) ma anche in un solido consorzio d’affari. L’incontro avviene in una circostanza singolare. Umberto convoca Accorsi a Palazzo Reale per vendere alcune maioliche di famiglia. Il principe vive del modesto appannaggio reale ma a Torino si è messo a condurre una vita mondana scintillante e dispendiosa. Dunque ha bisogno di soldi. Quando Accorsi vede il set di maioliche mostratogli dal principe, si accorge subito del suo scarso valore. La risposta che dà a Umberto è un capolavoro di diplomazia: «Vostra Altezza, le maioliche sono belle ma io non tratto questo genere. Però, mi rendo disponibile ad acquistare e a pagare in contanti altri pezzi di cui Vostra Altezza dispone, così come sono disposto a comperare arredi o oggetti antichi che qualche conoscente di Vostra Altezza volesse vendere».

Il principe Umberto capisce al volo. E da quel giorno l’augusto personaggio diventa una sorta di socio occulto di Accorsi. Il “Beppo” aveva ovviamente facile accesso alle dimore più prestigiose e riservate d’Italia, possedute da un’aristocrazia spesso economicamente in affanno che non disdegnava affatto di vendere, ogni tanto, qualche tesoro di famiglia per rimpolpare le finanze. Il principe e l’antiquario faranno “affari” insieme, getteranno le basi di una solidissima amicizia e condivideranno anche la passione per l’occultismo, coltivata a Torino in particolare dal celebre sensitivo Gustavo Adolfo Rol, dapprima grande amico di Accorsi, poi odiato rivale in affari, poiché anche Rol s’era messo a lavorare nel commercio antiquario.

Il sodalizio con il principe Umberto spalancò ad Accorsi le porte delle case più importanti d’Italia, per comperare, vendere o anche semplicemente offrire consigli su come arredare. Grandi imprenditori come Werner Abegg o Aldo Crespi si affidarono a lui per arricchire le loro sontuose dimore, e alle sue competenze faranno ricorso anche Riccardo Gualino, la famiglia Agnelli, i Bruni Tedeschi e persino Henry Ford II. Il suo “metodo di lavoro” era ben noto: primo, non diceva mai il prezzo di un’opera ma lasciava che fossero gli altri a proporlo; secondo, era sempre pronto a ricomprare allo stesso prezzo gli oggetti da lui venduti; terzo, sapeva creare spettacolari interni accostando mobili e oggetti di diversa provenienza seppur tendenzialmente tutti del Settecento, il secolo più amato dall’antiquario. Lo “stile Accorsi” si diffuse a macchia d’olio nelle case dei ricchi italiani nel Dopoguerra e segnò il carattere delle stesse dimore private di Pietro, dalla casa-galleria di via Po 55 (che riuscirà ad acquistare nel 1956) e alla Villa Paola di Moncalieri comperata nel 1928.

Pietro Accorsi si prodigò anche per arricchire musei e istituzioni pubbliche. La collaborazione con Vittorio Viale, direttore dei Musei Civici di Palazzo Madama di Torino, portò a uno straordinario incremento delle collezioni civiche, grazie alle vendite (e ai doni) fatti da Accorsi al museo. E quando Luigi Einaudi (già affezionato cliente di Accorsi) divenne presidente della Repubblica Italiana, l’antiquario torinese venne incaricato di sistemare gli arredi del Quirinale e di trovare mobili antichi adeguati all’importanza del luogo. Pochi sanno che la splendida scrivania settecentesca dalla quale il Capo dello Stato rivolge il suo discorso di fine d’anno alla nazione è frutto di una trouvaille di Accorsi.

Ma Accorsi commise mai degli errori e conobbe mai delle sconfitte? Ovviamente sì. Il libro, ad esempio, racconta dell’errore madornale attorno alla Pietà Rondanini di Michelangelo, che l’antiquario inspiegabilmente sottovalutò e non volle comperare per sé: l’opera, come è noto, venne poi acquistata dal Comune di Milano e oggi è uno dei capolavori più ammirati del Castello Sforzesco.

In quanto alle sconfitte, la più bruciante fu senz’altro quella legata all’”Affare Trivulzio”, al quale il libro dedica un intero capitolo. Le cose, in breve, andarono, così. Nel 1935 il principe milanese Luigi Alberico Trivulzio decise di vendere la storica pinacoteca di famiglia, comprendente capolavori di Mantegna, Antonello, Pontormo, Tiziano, Bramantino, e la colossale biblioteca avita contenente, tra l’altro, un quaderno manoscritto di Leonardo da Vinci e alcune pagine miniate da Jan van Eyck. In gran segreto il principe Umberto avvertì Accorsi dell’intenzione dei Trivulzio. Accorsi, a sua volta, in gran segreto avvertì il direttore Viale dell’opportunità che questo tesoro approdasse al Museo d’Arte Antica di Torino. Le trattative furono portate a buon punto: Accorsi si disse disposto a comperare in blocco la collezione per 9 milioni di lire e i Trivulzio accettarono. Il tutto in gran segreto. Ma, improvvisamente, la notizia trapelò e finì sui giornali. A questo punto scoppiò lo “scandalo”: Milano stava perdendo un tesoro inestimabile a favore di Torino! La cosa non poteva passare. Il podestà di Milano Marcello Visconti di Modrone si precipitò da Mussolini, che in quei giorni si trovava per combinazione non lontano da Milano, all’Isola Bella di Stresa, per la conferenza con Laval e McDonald. Il podestà sottopose al Duce il dossier Trivulzio, e Mussolini, che detestava il principe Umberto, si trovò nella felice condizione di fare uno sgarbo al Savoia. Diede subito ordine di bloccare la vendita della collezione Trivulzio a Torino e di fare in modo che i tesori trivulziani rimanessero a Milano. A questo punto il podestà convocò Accorsi e gli espose la volontà del dittatore. Accorsi non poté che incassare il colpo e senza battere ciglio chiese che la vendita venisse girata al Comune di Milano allo stesso prezzo stabilito di 9 milioni di lire. Per sé non rivendicò nulla, però “osò” porre una condizione vincolante: che Torino venisse risarcita della perdita con almeno due “regali”: il Ritratto d’uomo di Antonello da Messina e il Libro d’Ore del duca di Berry con 27 miniature di Jan Van Eyck e scuola. Come sappiamo, Milano accetterà le condizioni di Accorsi e oggi il ritratto di Antonello e le miniature di van Eyck sono tra i tesori più ammirati di Palazzo Madama a Torino. Mentre il grosso della collezione Trivulzio si trova esposta al Castello Sforzesco.

Negli ultimi anni di vita, Accorsi venne affiancato da un validissimo allievo, Giulio Ometto, che diventerà il suo erede e opererà al meglio per la nascita della Fondazione Accorsi-Ometto, la casa-museo oggi attivissima e aperta al pubblico allo storico indirizzo di via Po 55, lo stesso dov’erano cominciate le fortune di Accorsi (Per visite e informazioni: www.fondazioneaccorsi-ometto.it). In questo palazzo l’”antiquario del principe” si spense il 28 ottobre 1982. Qualche giorno prima aveva detto: «Ho sempre amato il bello, mi auguro di trovarne anche di là». Ce lo auguriamo anche noi, caro Accorsi.

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