Cultura

Ti amo, dunque ti correggo

  • Abbonati
  • Accedi
Religione

Ti amo, dunque ti correggo

Ego te absolvo. Giuseppe Molteni (1800-1867), «La confessione» (particolare), 1838, Milano, Fondazione Cariplo
Ego te absolvo. Giuseppe Molteni (1800-1867), «La confessione» (particolare), 1838, Milano, Fondazione Cariplo

Conosco da anni José Tolentino Mendonça, uno dei maggiori poeti e intellettuali portoghesi. Il suo dettato è straordinariamente lieve e profondo, trasparente e denso, semplice e raffinato al tempo stesso. Lo sguardo che egli posa sulla realtà umana – anche quando essa assomiglia più a un Kleine Narrenwelt, a un microcosmo di follia, come ironizzava il Mefistofele goethiano – rivela sempre due riverberi. Da un lato, egli opta per la tonalità minore, per la scala discendente verso il livello più nascosto e tenue, quasi memore dell’appello di un altro poeta, il Paul Valéry di Tel quel che invitava tra due parole a scegliere la moindre, la “minore” appunto. D’altro lato, il suo sguardo preferisce la tenerezza, le sue labbra si aprono più al sorriso che all’invettiva, anche quando sono di scena i mali del mondo o le colpe del singolo.

È tenendo conto di questo duplice approccio che suggeriamo la lettura di un dittico di libretti da poco tradotti in italiano. Pur essendo tematicamente differenti tra loro, si compongono in armonia proprio attraverso l’innocenza, il candore e la dolcezza dello sguardo con cui si affrontano le realtà trattate. Nel primo caso è di scena nientemeno che il tempo stesso della vita, ossia l’esistere umano, consapevoli della definizione biblica di Hölderlin: Ein Bild der Gottheit, la vita umana è «un’immagine della divinità». Sotto il velo della quotidianità si celano le teofanie, come ha insegnato Chagall collocando i grandiosi eventi salvifici nelle viuzze e tra le catapecchie dello shtetl ebreo mitteleuropeo. Sono varie le tappe attraverso le quali siamo invitati a “liberare il tempo” dalla pesantezza e dall’insensatezza, acquisendo altrettante “arti”, cioè quella sensibilità “poetica”, vale a dire creativa, che trasfigura in virtù persino la lentezza, l’incompiuto, la perdita, la delusione, il non sapere e, alla fine, anche la morte.

Uno di questi capitoletti – che sono sempre intarsiati di rimandi o ammiccamenti culturali talora sorprendenti (il fotografo Orimoto e il suo progetto “Mama”, il movimento artistico Fluxus di Beuys, Tonino Guerra che racconta Fellini, la psicanalista Melanie Klein...) – è intitolato appunto “l’arte di guardare alla vita”. E il monito finale rende in modo lampeggiante l’atteggiamento con cui Mendonça intuisce e percorre la trama dell’esistenza: «Non si tratta di vivere solo l’istante, impresa inutile giacché la vita è persistenza, è durata... Non è il fiore dell’istante che ci profuma, ma il presente eterno di quel che dura e passa, di quel che dura e non passa». Ma l’arcobaleno del nostro tempo ha mille colori ed è suggestivo inseguirli con l’autore per trascorrere dal rosso ardente della gioia, della felicità, del desiderio fino al gelido violetto della perdita, dell’incompletezza, della non conoscenza per approdare anche all’ultravioletto della morte.

Perché, «in tutta la caterva di saperi utili e inutili che riusciamo ad accumulare nel corso di un’intera vita ne manca uno fondamentale: l’imparare a morire». Dopo tutto era già Platone che nel Fedone insegnava che i veri pensatori amanti della sapienza fanno studio continuo sul morire. In quello spettro cromatico simbolico c’è anche “l’arte del perdono” che non è solo perdonare ma anche perdonarsi. Un atto, quest’ultimo, certo necessario per non piombare nella depressione, ma anche molto comodamente praticato e qui viene citata Alice Munro che in un’autocritica annotava: «Ci ripetiamo spesso che esistono cose imperdonabili o delle quali non ci perdoneremo mai. Non è vero: perdoniamo a noi stessi, eccome. Anzi, non facciamo altro». E sul filo tematico del perdono passiamo all’altro volumetto di Mendonça, dedicato all’“ammonire i peccatori”, che è la terza delle sette opere di misericordia spirituale.

Non si deve dimenticare che José Tolentino è anche un “padre”, cioè un sacerdote, capace di intrecciare cultura e fede, di incrociare uomo e Dio e di incontrare chi non crede ma s’interroga (egli, infatti, non ha esitato a dialogare con un fiero agnostico come il suo celebre connazionale José Saramago, autore del provocatorio Vangelo secondo Gesù e anche della Seconda vita di Francesco d’Assisi). L’atto di “ammonire i peccatori” è molto delicato perché in agguato c’è sempre l’ipocrisia altezzosa del fariseo della parabola di Gesù (Luca 18,9-14), pronto ad alzare il sopracciglio sdegnato nei confronti del miserabile pubblicano. Attraverso tre percorsi di taglio spirituale e morale, rimandando sempre al vasto e vario retroterra delle sue letture letterarie, Mendonça ci conduce nell’orizzonte religioso di quest’atto che appartiene sempre alla sfera dell’amore misericordioso, quando è praticato con purezza di cuore.

Entra, allora, in scena Gesù che per correggere adotta uno “sconcertante metodo”, quello della tavola. Là, infatti, egli coinvolge pubblicani, prostitute e peccatori e infrange le frontiere della sacralità ritrosa e sdegnosa, mentre le mani si rivolgono agli stessi piatti di portata e le parole si sciolgono nella spontaneità e nella sincerità. Proprio per questo i Vangeli registrano i pranzi di Gesù al punto tale da attirarsi il sarcasmo dei benpensanti che lo definiscono «un mangione e un beone» e uno che «accoglie i peccatori e mangia con loro». Eppure egli sa distinguere tra bene e male, tra giusto e ingiusto e quindi imbocca la strada ardua della correzione e della verità che è un gesto di amore, come già insegnava Platone nell’Eutidemo: «Ti amo, ma ti correggo con amicizia». Emblematico, perciò, è il suo invito: «Se tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai» (Luca 17,3-4).

Attorno a questa “stravaganza” di Cristo p. José Tolentino intesse la sua lezione sull’“arte del perdonare”, non esitando a introdurre anche la spezia dell’humor e la delicatezza della relazione interpersonale, affidandosi ad esempio a un poco noto racconto di Ray Bradbury, L’estate della pietà. Ma non ignora anche quel rovescio della medaglia che è accettare la correzione che ci viene inflitta da un altro. Alla base, comunque, ci dev’essere sempre la nobiltà della sincerità, dell’umiltà e dell’amore perché «ammonire chi sbaglia significa amare il prossimo senza un perché».

© Riproduzione riservata