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Un volto intagliato nel legno

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Libri

Un volto intagliato nel legno

Aveva un viso che era difficile scordare, io l’ho conosciuto quando la sua salute non era più buona, ma la fisionomia era quella, la stessa che si vede nelle fotografie di lui giovane ai tempi di Il ragazzo morto e le comete. A quell’epoca – l’inizio dei Cinquanta - Goffredo Parise assomigliava ai personaggi erranti e lunatici del suo romanzo d’esordio, e quella sua faccia così affilata faceva pensare al personaggio di Baptiste, il mimo interpretato da Jean-Louis Barrault nell’indimenticabile film di Marcel Carné del 1945, Les enfants du Paradis, che in Italia uscì col più convenzionale titolo di Amanti Perduti. Poi gli anni avevano ispessito la sua figura, ma conservava sempre l’aspetto di una statua intagliata nel legno, soprattutto il viso, come costruito a sciabolate, o scalpellato, di modo che l’ossatura risaltava netta sotto la pelle. Aveva un mento sporgente, aguzzo, con una fessura al centro, e un naso un po’ a becco che lo faceva somigliare a un rapace delle montagne che tanto amava. Effettivamente quel naso e quel mento gli conferivano un che di aggressivo, ma questa curvatura predace era totalmente contraddetta dai suoi occhi, o per meglio dire da tutto il paesaggio del suo sguardo. Gli occhi erano molto grandi, scuri, infinitamente melanconici, e incastonati nelle orbite come in delle grotte, sotto la protezione delle sopracciglia sporgenti. Era un effetto strano, un volto diviso tra combattività e un’ involontaria dolcezza. Sono questi occhi, incappucciati e assorti di fronte allo spettacolo del mondo, che risaltano come l’elemento più significativo e più affascinante nei ritratti che gli ha fatto la compagna Giosetta Fioroni.

Per quanto sia arbitrario trovare un nesso o un riflesso dell’opera di un artista o di uno scrittore nei tratti del suo viso, non posso fare a meno di pensare che la fisionomia, anzi la stessa conformazione e alloggiamento dei lineamenti nel volto di Parise fossero una specie di mappa della sua bibliografia, o perlomeno della sua vocazione letteraria. C’è una parte aggressiva, polemica, anche beffarda nella sua storia di intellettuale – naso e mento – e poi c’è l’aerea impassibile malinconia contemplativa dei Sillabari – gli occhi, lo sguardo. Era come se gli occhi, più che guardare, scrutassero e meditassero. Qualcosa di diverso dall’osservare. Occhi pronti a cogliere, laddove occasionalmente si trovasse, la douceur de vivre, o la più nera delle catastrofi. Benché quando l’ho conosciuto fossi in quella fase della giovinezza in cui la timidezza è esorcizzata da una certa indifferente temerarietà sociale, pure Goffredo - il suo sguardo - mi ha sempre messo soggezione. Anche il suo modo di fare mi sembrava contraddittorio. Era gentile e brusco, ironico e invincibilmente serio, un po’ presente un po’ assente, come se quei viaggi in paesi lontani durante i quali si congedava dal mondo fossero in atto dentro di lui mentre sedeva a tavola o in un salotto. E a proposito di contraddizioni (e di salotti), eccone un’altra: anche quando era amabilmente mondano c’era qualcosa di duramente ascetico in lui. Amava molto i pittori, da qualche parte mi pare che abbia scritto che invidiava quel diretto, carnale rapporto con la tela e i colori, ma anche lui, così insofferente delle idee correnti, delle ideologie, delle acrobazie intellettuali e delle chiacchiere culturali, faceva pensare a un pittore della scrittura, imprigionato nella tirannia del suo talento.

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