Erano il bel gesto operaio del dì di festa, lo scialo del mezzogiorno proletario, non sapevano chiamarlo così ma era un aperitivo. A crocchi in piedi davanti a un banco di lamiera zincata al lato della piazza accanto alla fontana, l’acqua serviva corrente per lavarsi nel caso le mani e per tenerci al fresco i bottiglioni di vermentino, facce rasate dopo un bel po’ di giorni, d’inverno cappotti rivoltati e d’estate camice bianche aperte sul segno della canottiera bianca anche lei, tutti con il loro giornale arrotolato in tasca per non portarlo a casa insudiciato, bisogna leggere tutto, non buttare via niente con quello che costa il giornale, ognuno con il suo piatto di terra bianca poggiato sul banco e dentro dodici muscoli, una lama e due mezzi limoni. Solo noi diciamo muscoli, tutto il mondo dice cozze.
E il gesto dicevo, il muscolo tenuto nel palmo della mano, la lama che scivola tra le valve e le spalanca come ante di un astuccio da femmine, tre gocce di limone, l’animale che si arriccia, le labbra, il risucchio, la lingua che schiocca, un sorso di vermentino. Per dodici volte, in silenzio, composti, compresi, come all’offertorio della messa dove non sono andati.
Dodici muscoli e un bicchiere di bianco per 150 lire, e io sento il profumo ancora dopo 40 anni, perché poi è venuto Il Grande Colera di Napoli, è venuto il vibrione assassino e di muscoli crudi non se n’è più toccato uno. Il profumo, il profumo, il profumo di salmastro vivo morente nel limone, e l’attimo struggente quando si intenerisce del sospiro floreale del vermentino.
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