Guido Bezzola, spentosi domenica scorsa a novantasette anni a Mandello del Lario, ha insegnato Letteratura italiana alla Statale di Milano per un periodo così lungo da essere identificato con quella disciplina da centinaia di allievi divenuti nel frattempo insegnanti o comunque rimasti, grazie anche a lui, lettori qualificati.
Al centro degli interessi di Bezzola c’erano, da sempre (o almeno da quando lasciò i giovanili esperimenti di direttore di una rivista culturale e fotografica, «Ferrania») gli autori lombardi o attivi a Milano nel corso dell’Ottocento, con una particolare predilezione per Foscolo, Manzoni e Porta. Per quest’ultimo, come per Giulia Manzoni Beccaria cui dedicò un volume nel 1985, Bezzola ha offerto un contributo ormai passato di moda, che varrebbe la pena di riportare in auge presso i letterati: quello della biografia, genere perlopiù disertato dai seri studiosi – tale era Bezzola, formatosi alla palestra della filologia foscoliana – che rischia di diventare terra di conquista dei romanzieri con poca fantasia o dei cercatori di scandali tardivi.
Per scrivere la vita del più grande poeta in dialetto milanese, egli si affidò alla testimonianza delle lettere pubblicate da Dante Isella, corredandola con una conoscenza profonda e appassionata dell’opera letteraria e del suo ambiente storico. In effetti, l’altro genere – accanto alla biografia – in cui Bezzola si fece apprezzare fu l’edizione critica minutamente commentata, come quella ch’egli dedicò ai poemetti dello stesso Porta. Biografia ed edizione sono state condotte da lui senza lo smanioso protagonismo che in molti trasformano la prima in un’autobiografia dissimulata e la seconda in un’esibizione di narcisismo filologico. Il narcisismo, che è naturale negli accademici, Bezzola sembra lo confinasse all’azione didattica della lezione, spesso istrionica, a quanto pare con complessiva soddisfazione delle torme di studentesse e di studenti di cui sopra (tanto che persino i collettivi del Sessantotto lo mandarono assolto in un severo «processo» che lui raccontava divertito ancora a decenni di distanza).
Il lascito di Bezzola consiste dunque in testi che della storia si nutrono continuamente, e alla storia ritornano, mettendo negli anni convulsi del primo Ottocento, in cui sulle ceneri della modernità iniziò l’epoca che chiamiamo (e Bezzola poteva chiamare a maggior diritto di noi) contemporanea. In uno degli articoli scritti per il «Domenicale» del Sole-24ore a metà degli anni Novanta, nel pieno del bicentenario della calata di Napoleone in Italia, Bezzola di autodefinì stendhaliano di nascita. Segnato, insomma, da una visione eroica ed esaltante di quella stagione, in cui – e su questo non si può che dargli ragione – la Milano giacobina e austriaca fu davvero una delle città culturalmente più inquiete e intellettualmente più feconde d’Europa. Uno dei sintomi più chiari di tale vitalità è il fatto stesso che nel momento di massima fioritura, Milano poté dare alimento alla letteratura non solo nella lingua allora internazionale, il francese, che gentiluomini e gentildonne padroneggiavano qui senz’alcun difetto, né solo in italiano, tanto da contenderne lo scettro a Firenze quale capitale linguistica prima che morale, ma persino nel dialetto locale: fattosi quest’ultimo, grazie appunto a Porta e ai suoi omologhi, lingua non meno universale per contenuti e ricchezza d’espressione, con buona pace di chi continuava a considerarla balbettìo dell’arretratezza e dell’angustia. Di quella Milano e di quel milanes Bezzola – che non disdegnava di farne un uso arguto anche nel suo eloquio professorale – è stato uno dei lettori e degli interpreti più fedeli.
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