Cultura

Diamo campo a P.P.P.

  • Abbonati
  • Accedi
teatro

Diamo campo a P.P.P.

Fra i tanti omaggi che, nel quarantennale della morte, il teatro italiano ha tributato a Pasolini, uno dei più affettuosi mi è parso senza dubbio Pier Paolo!, un evento ideato da Giorgio Barberio Corsetti che consiste in una partita di calcio dedicata alla memoria del poeta friulano. Pasolini, come si sa, era una valente ala destra e un appassionato osservatore del mondo del pallone. Ricordarlo sull’erba di un terreno di gioco, nel luogo di quella che era, secondo lui, «l’ultima sacra rappresentazione del nostro tempo», è stata una buona idea, insolita e divertente ma per nulla occasionale.

Pier Paolo! era stato presentato in forma di laboratorio nel 2014 a Rieti, poi mesi fa nel quartiere romano di Pietralata, e lo scorso luglio sul campetto nel parco dell’ex-ospedale psichiatrico Paolo Pini di Milano, per la rassegna “Da vicino nessuno è normale”. In un vero incontro calcistico si affrontavano due squadre, una formata da rappresentanti dell’associazione Olinda, che organizza la rassegna, l’altra da ragazzi di colore entrati da poco in Italia e iscritti all’Asnada, una scuola per immigrati. Gli sviluppi del gioco si intrecciavano con gli interventi dei numerosi attori coinvolti.

Su quell’improvvisato palcoscenico erboso - le voci amplificate, le immagini proiettate in diretta su grande schermo - irrompeva dunque una serie di figure più o meno tipiche dell’immaginario pasoliniano: al centro di tutto lo scrittore stesso, incarnato da Gabriele Portoghese, dava voce a quel suo ragionare pacatamente puntiglioso, sempre dal tono vagamente saggistico, sui grandi temi nazionali degli anni Settanta, la perdita delle identità sociali, l’omologazione consumistica. Alcuni spunti apparivano datati, altri – come la percezione dei fenomeni migratori – di una sconcertante attualità.

C’erano inoltre tre puttane uscite da Mamma Roma, un politico democristiano, il viscido ministro Troìa, nato dalle pagine di Petrolio, un immancabile poliziotto proletario, due scalcagnati re magi - presi dalla sceneggiatura incompiuta di Porno-Teo-Kolossal – nella scia di una cometa che li guidasse a un neonato messia. E poi la band musicale, i tifosi che dalla tribuna, brandendo i megafoni, scandivano versi di Pasolini come bizzarri slogan da stadio, il tutto fischiato e diretto da Roberto Rustioni nei panni di un satanico arbitro-regista, emblema dei poteri oscuri del neo-capitalismo.

Il collage dei testi, necessariamente brevi e frammentari, attingeva alle opere più diverse, brani poetici, romanzi, articoli di giornale: gli argomenti erano quelli consueti, la forza del passato, il contrasto fra la sobrietà contadina dei padri e lo sradicamento di un presente divenuto «arena dell’avere tutto a ogni costo». Spiccavano, ovviamente, le riflessioni sul calcio, con la celebre distinzione fra il tatticismo europeo, che appartiene alla prosa, e l’estro sudamericano, che è pura poesia. Ampio spazio era dato alle domande sulla sessualità degli italiani che componevano il film Comizi d’amore, rivolte ai giocatori e agli spettatori sulla gradinata.

Sul piano strettamente teatrale era inutile cercare ritmo e tensione narrativa: sovrastata dal predominio fisico della gara sportiva, l’azione drammatica tendeva fatalmente a sfilacciarsi. Ma l’odore del prato, la luce della sera estiva davano inedite suggestioni alle parole di Pasolini, e certi cori, certi primi piani dei ragazzi-calciatori in altri contesti sarebbero stati impossibili. Lo spettacolo aveva d’altronde anche momenti di bella intensità, come l’invettiva a sostegno dei poliziotti figli del popolo, trasformata in monologo detto dal bravo Valentino Mannias in divisa da agente, o la scena finale, ispirata al La ricotta, con l’immigrato e i due “magi” crocifissi alla traversa della porta.

Sarà difficile organizzarlo, ma vale la pena di non lasciarlo cadere.

© Riproduzione riservata