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E poi piango con la stella alpina

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E poi piango con la stella alpina

Paesaggi remoti. Un esempio di «stelutis alpinis»
Paesaggi remoti. Un esempio di «stelutis alpinis»

Non sono propenso all’ascesa. Scettico sul fatto che lassù in cima sarei a un passo da Dio, e con la certezza che è pura illusione la bizzarra idea di toccare il cielo con un dito, sono serenamente giunto a disdegnare il cimento alpinistico; a parte che a questo punto della mia esperienza umana per ascendere con una qualche dignità dovrei sostituire gli elementi portanti dei miei arti inferiori, ’sta storia di mettersi alla prova in un duro ma leale confronto con sassi e macigni, ghiacci e strapiombi la vedo più consona al surplus di furenti energie della mia antica adolescenza. E vabbé, e allora perché sono qui attanagliato a uno spunzone di malfida dolomia in ascolto del mio ultimo respiro a un’altitudine che non voglio nemmeno sapere il numero, a una distanza disumana dal livello di nostra madre Mare dal cui grembo tutti proveniamo e mai dovremmo allontanarci più del consentito? E perché insieme all’ultimo fiato mi viene giù questo pianto fitto fitto? Sì, piango come un cretino; piango di disperazione perché non ricordo nemmeno più se da qualche parte c’è a chi urlare aiuto riportami giù, piango di nostalgia perché nella mano aggrinfiata al sasso c’è finita una stella alpina. La sento tra le dita, il lievissimo contatto del suo vello di velluto, adocchio di sghimbescio il suo pallore astrale, e mi ricordo di aver cantato anch’io, non so più quando non so più dove, quella canzone così barbara e così dolce, così ostica e perduta. Se tu vens ca su ta’ cretis, là che lôr mi àn soterât, al è un splaz plen di stelutis.

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