Cultura

Ghirri con scatti capresi

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MAESTRI DELLA FOTOGRAFIA

Ghirri con scatti capresi

«Capri 1981», courtesy Archivio Luigi Ghirri
«Capri 1981», courtesy Archivio Luigi Ghirri

Non avrebbe mai usato i toni di Tommaso Filippo Marinetti che durante il primo convegno italiano sul paesaggio, tenuto a Capri nel luglio del 1922, accusò i passatisti «di essere miopi, anemici e insensibili». Questo lessico non apparteneva a Luigi Ghirri, ma la sostanza sì. E basterebbe riguardare con attenzione e immensa nostalgia le ventiquattro fotografie realizzate a Capri tra il 1980 e il 1981, oggi esposte al Museo della Casa Rossa di Anacapri in una bella mostra curata da Gianluca Riccio e Arianna Rosica, all’interno della prima edizione del Festival del Paesaggio, per accorgersi di quale forza compostissima e devastatrice fossero cariche. Quasi un’onda anomala che nella più celebrale e delicata delle mareggiate aveva travolto almeno un secolo di stereotipi, trasmettendo però a quegli stessi luoghi usurati la forza di rigenerarsi e di riscrivere il paesaggio.

A trentasette anni e dopo aver già realizzato due dei suoi lavori più straordinari, Colazione sull’erba del 1974 e Kodachrome del 1978, Luigi Ghirri viene invitato a Napoli per confrontarsi su un paesaggio diverso, non solo perché lontano geograficamente dall’Emilia dove era nato nel 1943, a Scandiano, ma perché iperstoricizzato e dalla metà dell'Ottocento offerto come prodotto di consumo. Nel famoso convegno del 1922 Edwin Cerio, suo promotore e allora sindaco di Capri, e soprattutto uomo dalla biografia pirotecnica – era ingegnere, scrittore, naturalista, aveva realizzato navi militari e sommergibili per la Krupp, poi linee ferroviarie, quella tra Santiago e Buenos Aires, e una volta in Italia aveva lavorato come progettista per la Fiat – aveva dichiarato «la necessità di liberare l’isola dalle rappresentazioni sdolcinate che da mezzo secolo ne fanno i mercanti di pittura e che non assomigliano a Capri, ma alla visione che di Capri hanno i turisti che le comprano».

Liberare era un verbo che piaceva moltissimo a Ghirri. Liberare e liberarsi da uomo adulto sapendo che le regole esistono. In una serie d’incontri con gli studenti dell’Università del Progetto, a Reggio Emilia, tra il 1989 e il 1990, incontri poi raccolti nel volume Lezioni di fotografia (edito da Quodlibet Compagnia Extra), Ghirri aveva spiegato così il suo lavoro: «Io credo che il lavoro del fotografo consista nella stesura di una carta geografica più che nel seguire una linea retta, una strada precisa, una specie di percorso obbligato; nel costruire piano piano, una specie di mappa sulla quale ognuno può trovare la sua strada pur muovendosi all’interno di una serie di regole prestabilite, di conoscenze necessarie». Verrebbe da dire che quello che Ghirri voleva fotografare era in realtà un metodo per smontare le immagini “anemiche e insensibili”, come avrebbe detto Marinetti, e leggere diversamente luoghi tipici della tradizione iconografica del Gran Tour come i Faraglioni, l’Arco naturale, il Monte Solare, la Certosa di San Giacomo e Marina Piccola. Il cannocchiale sul belvedere di Villa San Michele, costruita da Axel Munthe nel 1895 ad Anacapri, a un passo dalle rovine di un’antica villa romana i cui resti adornano la dimora del medico svedese, non è solo un’immagine nuova ma è l’invito a guardare in un modo nuovo per non soccombere «al disastro visivo colossale nel quale ci muoviamo», ricordava il fotografo. E così quei piedi femminili che calpestano la mappa dell’isola e le sue bellezze dipinte su un tradizionale mosaico di piastrelle, dalla Grotta Azzurra alla vista sul Golfo di Napoli, non suggeriscono un’azione violenta, un azzeramento, un calcio a tutto, ma la ricerca sulla stessa mappa di un altro percorso. E questo percorso esiste? La sfinge, fotografata da Ghirri ancora a Villa San Michele nella cornice sublime di un arco chiarissimo e sullo sfondo del più pacifico e rasserenante dei mari, rimane in silenzio.

Luigi Ghirri, Anacapri, Museo della Casa Rossa, fino al 30 settembre

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