Cultura

Il discorso del rabbino

  • Abbonati
  • Accedi
JONATHAN SAFRAN FOER

Il discorso del rabbino

 Jonathan Safran Foer, 39 anni, nel suo ultimo libro parla di una famiglia in crisi
 Jonathan Safran Foer, 39 anni, nel suo ultimo libro parla di una famiglia in crisi

Alla fine, si fece avanti il rabbino. Si schiarì la gola, si aggiustò gli occhiali sul naso ed estrasse dalla tasca un piccolo bloc-notes a spirale. Sfogliò qualche pagina, poi lo mise via, dopo aver affidato i contenuti alla memoria o dopo essersi accorto di aver preso per caso il bloc-notes sbagliato.
«Che cosa possiamo dire di Isaac Bloch?».
Lasciò una pausa sufficiente a generare una certa incertezza retorica. Stava davvero facendo una domanda? Stava ammettendo di non conoscere a sufficienza Isaac per sapere che cosa dire?
Che cosa possiamo dire di Isaac Bloch?
«Che cosa possiamo dire di una persona su cui c’è troppo da dire?».
Il rabbino si mise le mani nelle tasche della giacca, chiuse gli occhi e fece un cenno di assenso.
«Non sono le parole a mancarci, è il tempo. Non ce n’è abbastanza – neppure da adesso alla fine dei tempi – per raccontare la tragedia, l’eroismo e la tragedia della vita di Isaac Bloch. Potremmo rimanere qui a parlare di lui fino ai nostri funerali e non basterebbe. Sono stato a fargli visita la mattina della sua morte».
(…)

«Mi ha telefonato e mi ha chiesto di passare da lui. Non ho sentito urgenza nella sua voce. Non ho sentito disperazione. Ma ho sentito bisogno. Per cui ci sono andato. Era la prima volta che andavo a casa sua. Ci eravamo incontrati solo una volta o due a shul, e sempre di sfuggita. Mi ha fatto sedere al tavolo della cucina. Mi ha versato un bicchiere di ginger ale e mi ha servito un piatto di fette di pumpernickel, del melone. Molti di voi hanno consumato lo stesso pasto allo stesso tavolo».
Risatina sommessa di ammissione.
«Parlava piano, con evidente sforzo. Mi ha raccontato del Bar Mitzvah di Sam e della serie tv di Jacob, della precocità di Max con le divisioni in colonna e delle corse in bicicletta di Benjy e dei progetti di Julia e della meshugas di Irv – il termine l’ha usato lui.»
Risatina. Stava vincendo.
«E poi mi ha detto: “Rabbino, non provo più disperazione. Per settant’anni ho avuto solo incubi, ma adesso non ho più incubi. Provo solo gratitudine per la mia vita, per ogni momento che ho vissuto. Non solo per i momenti buoni. Provo gratitudine per ogni momento della mia vita. Ho visto così tanti miracoli”».
(…)

«Poi mi ha chiesto se parlavo yiddish. Gli ho risposto di no. Mi ha detto: “Che razza di rabbino non parla yiddish?”».
Risata di gusto.
«Gli ho spiegato che i miei nonni parlavano yiddish con i miei genitori, ma i miei genitori non mi hanno mai permesso di ascoltare. Volevano che imparassi l’inglese. Che dimenticassi lo yiddish. Mi ha raccontato che lui ha fatto lo stesso, che era l’ultimo a parlare yiddish nella sua famiglia, che nella bara ci sarebbe stata anche la lingua. E poi ha messo la sua mano sulla mia e mi ha detto: “Lasci che le insegni una frase yiddish”. Mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Kein briere iz oich a breire”. Gli ho chiesto che cosa significasse. Lui ha ritirato la mano e mi ha detto: “Guardi sul dizionario”».
Altra risata.
«Effettivamente l’ho cercato sul dizionario. Dal mio telefono, nel suo bagno».
Altra risata ancora.
«Kein briere iz oich a breire. Significa “Anche non avere scelta è una scelta”».
No, quelle parole non potevano essere sue. Erano troppo falsamente sagge, troppo paghe delle circostanze. Isaac Bloch era molte cose, ma certo non era rassegnato.

Se non avere scelta fosse stata una scelta, Isaac avrebbe esaurito le scelte una volta al giorno dopo il 1938. Ma la famiglia aveva bisogno di lui, specie prima che la famiglia esistesse. Avevano bisogno che voltasse le spalle ai suoi nonni, ai suoi genitori e a cinque dei suoi fratelli. Avevano bisogno che si nascondesse in quella buca con Shlomo, che camminasse con le gambe rigide verso la Russia, mangiasse di notte la spazzatura altrui, si nascondesse, rubasse, rovistasse. Avevano bisogno che falsificasse documenti per salire a bordo di una nave e dicesse le bugie giuste al funzionario dell’immigrazione americano e lavorasse diciotto ore al giorno per fare in modo che il negozio continuasse a rendere.
«Poi» proseguì il giovane rabbino «mi ha chiesto di andare a comprargli della carta igienica da Safeway perché era in sconto».
Tutti ridacchiarono.
«Gli ho detto che non aveva più bisogno di comprare la carta igienica. Se ne sarebbe occupata la Casa ebraica. Lui mi ha fatto un sorriso furbo e ha detto: “Ma a quel prezzo...”».
Una risata più forte, più libera.

«”Nient’altro?” gli ho chiesto. “Nient’altro” ha risposto. “C’era qualcosa che voleva sapere? Qualcosa che voleva dire?” Mi ha detto: “Ci sono due cose di cui tutti hanno bisogno. La prima è avere la sensazione di aver dato un contributo al mondo. Concorda?” Gli ho detto che concordavo. “La seconda è la carta igienica”».
Qui arrivò la risata più sguaiata fino a quel momento.
«Mi viene in mente un insegnamento chassidico che ho imparato quando studiavo da rabbino. Ci sono tre livelli ascendenti nel modo di piangere una persona: con le lacrime, con il silenzio e con il canto. Come piangiamo Isaac Bloch? Con le lacrime, con il silenzio o con il canto? Come piangiamo la fine della sua vita? La fine dell’epoca ebraica cui ha partecipato e di cui è stato un esempio? La fine degli ebrei che parlano con quella musica di strumenti rotti; che organizzano la loro grammatica in senso antiorario e a cui sfugge il senso di qualunque frase fatta; che dicono di me invece di mio, i tedeschi invece di nazisti, e che implorano i propri parenti perfettamente sani di stare in salute invece di sentirsi silenziosamente grati per la loro buona salute? La fine dei baci a centocinquanta decibel, di quella grafia europea ubriaca. Versiamo lacrime per la loro scomparsa? Ci addoloriamo in silenzio? O cantiamo le loro lodi?

«Isaac Bloch non era l’ultimo della sua specie, ma una volta comparsa, la sua specie sarà scomparsa per sempre. Noi li conosciamo, abbiamo vissuto in mezzo a loro, ci hanno plasmato come ebrei e come americani, come figli e come nipoti, ma il tempo per conoscerli è quasi esaurito. E poi saranno scomparsi per sempre. E noi li ricorderemo soltanto. Finché non li ricorderemo più.
«Li conosciamo. Li conosciamo con le lacrime per le loro sofferenze, con il silenzio per tutto quello che non può essere detto e con il canto per la loro tenacia senza precedenti. Non ci saranno più vecchi ebrei che interpretano un accenno di buona notizia come la garanzia di un’apocalisse imminente, che a un buffet si comportano come in un negozio di alimentari prima di una bufera di neve, che sfiorano il labbro inferiore con un dito prima di girare una pagina dell’epopea del loro popolo».

Traduzione di Irene Abigail Piccinini

© Riproduzione riservata