Cultura

Lancillotti per le vie di Modena

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SIGNORIE ITALIANE

Lancillotti per le vie di Modena

In pieno rinascimento. Alfonso I d'Este (1476 - 1534), duca di Ferrara, Modena e Reggio Emilia
In pieno rinascimento. Alfonso I d'Este (1476 - 1534), duca di Ferrara, Modena e Reggio Emilia

Tommasino de’ Bianchi discendeva da una famiglia di speziali, nella cui bottega aveva lavorato egli stesso da giovane, anche se non era più quella di suo padre in piazza del duomo, che in passato «la era stata come una Venetia picola in Modena» e aveva consentito alla famiglia di arricchirsi. Lasciato il commercio, aveva praticato l’arte notarile, grazie alla quale aveva ottenuto successi, privilegi e onori di cui era fierissimo, tanto da potersi definire «nobile modenexe, conto palatino, appostolico e imperiale nodare, banchero», in quanto nobilitato dall’imperatore Massimiliano I nel 1517 con l’attribuzione di un curioso stemma sormontato da un cimiero con al di sopra un libro e un’oca, e insignito del titolo di cavaliere da Alfonso d’Este nel 1528. Un orgoglio sociale che si accompagnava in lui, all’orgoglio per la sua prestanza fisica che nel 1548, allora settantacinquenne, lo induceva a scrivere di non essere vecchio, «ma de tempo, perché con la gratia de Dio sono sano e ben complessionato, […] grando, grosso […] e di bonissima natura», e all’orgoglio per la ferrea moralità di cui si sentiva portatore, «piacente a tute le persone e utile e honorevole a tuta la Republica nostra», sempre impegnato a «dare bono exemplo ad ogni persona». Non c’è da stupirsi che fosse un fiero conservatore, diffidente di ogni novità, sempre pronto a indignarsi contro gaudenti e fannulloni che dissipavano i loro patrimoni.

Non metterebbe conto soffermarsi su questo uomo d’altri tempi (anche ai suoi tempi!) se non avesse lasciato una minuziosa cronaca che si collegava a quella avviata nel 1474 dal padre e da lui proseguita per mezzo secolo fino alla morte. Già pubblicata con molti errori e omissioni in 12 volumi all’indomani dell’unità d’Italia, nel quadro delle iniziative promosse in tutta la penisola dalle Deputazioni di storia patria, viene riproposta in una nuova e accurata edizione (di cui sono ora usciti 4 volumi), priva dei tagli e delle censure dei primi curatori. Scritte in un italiano denso di dialettismi, vibrante di un orgoglio cittadino in cui pulsa un’antica tradizione comunale, le oltre 5mila pagine della cronaca del Lancillotti sono un documento a dir poco straordinario per capire non solo e non tanto la storia della «magnifica cità de Modena» quanto i meccanismi sociali, politici, economici, religiosi che governavano una comunità urbana d’antico regime. Certo, la narrazione si frantuma nei minuti episodi elencati giorno per giorno, ma basta inoltrarsi con un po’ di pazienza in quel microcosmo urbano perché esso cominci a popolarsi di uomini in carne ed ossa e non più solo di nomi, di vicende individuali e collettive che disegnano strutture di potere, gerarchie, pratiche sociali, di fatti che incidevano sulla carne del popolo e sulle tensioni sociali, come per esempio le carestie, durante le quali la fame dei poveri diventava fonte di arricchimento per chi poteva speculare sul prezzo del grano. Ci si immerge così in un turbinio di storie famigliari, nascite, morti e matrimoni, rivalità, inestinguibili faide; in una folla di personaggi d’ogni genere, illustri letterati come Ludovico Castelvetro, spregiudicati mercanti, banchieri, appaltatori di imposte, come l’onnipresente e ricchissimo Girardino Molza, oscuri predicatori itineranti, preti corrotti e illustri prelati (ben 4 cardinali erano modenesi nei primi anni quaranta, con grande vanto del Lancillotti); in una fitta trama di notizie sui raccolti («le biave stano benissimo se Dio se le lasa cogliere»), i prezzi, le tempeste, le pestilenze, le gabelle, gli eccessi del lusso e delle doti, i provvedimenti delle pubbliche autorità, il succedersi nelle cariche pubbliche, le confraternite, gli ospedali.

Ne risulta un mondo pulsante di vita, profondamente identificato con il contesto cittadino, anche perché il cronista non tralascia di esprimere i suoi giudizi, spesso pungenti, su uomini e cose: per esempio quando il dilagare dell’eresia luterana a Modena (un principe tedesco la definì «la sola città benedetta in Italia») lo pone di fronte al dilemma tra la condanna senza riserve di ogni novità religiosa e l’indignazione per gli abusi e la corruzione della Chiesa di Roma. Condanna e indignazione che incidono anche sul linguaggio con cui egli si scaglia per esempio contro gli eterodossi che cercano di nascondere le loro deviazioni dottrinali, ai quali ricorda il proverbio «chi se copre el culo de frasche, el sole le secha et crodano et se ge vede el culo, con reverentia». Ma quando da Roma, nella primavera del 1527, giunge la notizia del terribile sacco della città perpetrato dalla soldataglia imperiale il Lancillotti non nasconde la sua soddisfazione per quel manifesto «iuditio de Dio» contro le «grande estorsion e tiranie che se facevano in Roma e li grandi piaceri de 18.000 putane che g’erano; ogni cosa coreva, putane, bardase e sodomiti, e tuto quello che se doveva spendere in adornamento e bono governo della fede cristiana se spendeva in le cose soprascrite et in adornamenti de mule, cavali, grande corte, grandi palaci bene adobati e altre vanità asai. […] Non se credeva se non in oro e argento, cavalcature, corti, ben vestire e meglio mangiare, e la mancha parte era el culto divin e la più parte era la ruina de la Italia e de tuta la cristianità: e Dio ha fato grande miracolo a punire tuta Roma da capo a piede con li spagnoli e lanzechenechi como ha fato, et hano punito li boni et li tristi, e ancora non è finito».

Una pagina straordinaria, di cui non sarebbe difficile trovare altri esempi, che mostrano come questa cronaca, lungi dal ridursi a un’arida elencazione di fatti, sia invece percorsa dalle sanguigne passioni di un uomo tutto d’un pezzo, sempre pronto a deplorare i mali del presente: «Cussì sono la magiore parte dele persone, e fingono santità e dentre sono lupi rapaci». Girolamo Tiraboschi, il grande storico settecentesco della letteratura, anch’egli modenese, diceva che «le cronache non sono la storia, ma fanno la storia». Una storia vista da una prospettiva marginale e periferica, tutta rinchiusa tra le mura modenesi e le cose d’ogni giorno, che però il Lancillotti sa raccontare attraverso il filtro del suo tenace orgoglio cittadino, del suo sguardo partecipe e fazioso, del suo burbero pessimismo e del suo pedante moralismo, in presa diretta con la vita quotidiana e il suo intrecciarsi con la piccola storia estense e la grande storia europea.

Tommasino de’ Bianchi detto Lancillotti, Cronaca di Modena (1506-1555), a cura di Rolando Bussi e Carlo Giovannini, voll. I-IV( pagg. 365, 397, 312, 412), Modena, Fondazione Cassa di risparmio di Modena, sip

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