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Moderno bardo d’Irlanda

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Moderno bardo d’Irlanda

Dublino. Seamus Heaney (1939 - 2013) nella sua casa di Dublino nel 1983
Dublino. Seamus Heaney (1939 - 2013) nella sua casa di Dublino nel 1983

Nell’Irlanda celtica, gli antichi bardi avevano un’influenza inferiore soltanto a quella dei re. E lo stesso monarca, non di rado, li temeva: chi aveva la facoltà di legare le parole in catene solide e sequenze memorabili poteva irretire persino la soverchiante Natura e intimidire i potenti.
Questo tratto della cultura tradizionale irlandese è riemerso, alcuni mesi fa, dalle vetrine della migliore libreria di Dublino, che mostravano in decine di esemplari un’opera sconosciuta di Seamus Heaney: la versione inglese del VI libro dell’Eneide, terminata poche settimane prima di morire nell’agosto 2013 e ritrovata dalla figlia Catherine fra le carte del poeta. Da quelle vetrine l’editore inglese Faber and Faber sembrava gridare il proprio entusiasmo per i 1222 versi di quella traduzione, che da noi, probabilmente, avrebbe attirato tutt’al più qualche cultore o filologo.

Questo per dire che c’è qualcosa che al lettore italiano sfuggirà per sempre, credo, della figura di Seamus Heaney, anche se ora ha a disposizione lo strumento migliore per accostarsi a lui, un Meridiano Mondadori delle Poesie finalmente compiuto dopo anni di preparazione. Ben prima del premio Nobel vinto nel 1995, Heaney è stato largamente letto e premiato per le sue raccolte poetiche; all’età di soli trentasei anni, è stato indicato da Robert Lowell come il più importante poeta irlandese dopo Yeats; è stato studiato a scuola in tutti i paesi di lingua inglese; ha insegnato da cattedre prestigiose, a Harvard e Oxford. In breve, in un modo sorprendente e insieme naturalissimo Heaney è stato onorato e amato come un vasto fenomeno di sintonia, un’ampia capacità di accogliere e di essere accolto.

Così, non è un fatto accidentale che il Meridiano sia stato introdotto da Piero Boitani e curato, in parte tradotto e annotato da Marco Sonzogni: entrambi sono stati amici di Heaney, hanno passeggiato con lui, mangiato e bevuto alla sua tavola. I grandi poeti da sempre scelgono i propri lettori, li lasciano andar via oppure li modificano lentamente, li predispongono all’incontro. Cosicché, questi versi, scelti da Heaney proprio pensando all’edizione italiana, hanno ispirato un’opera editoriale di commossa intelligenza, perfettamente affidabile proprio perché è la momentanea cristallizzazione di un colloquio continuo, di una studiosa vicinanza.

Figlio di un agricoltore nordirlandese, educato a un cattolicesimo identitario ma presto laico possessore di una vasta cultura classica, Heaney è un poeta da leggere con la mente ai luoghi campestri che noi stessi abbiamo frequentato e perduto. Anche la poesia più urbana e civilizzata serba in Heaney le impronte di una direzione diversa. La colata d’asfalto più scorrevole o il giardino più ricco di piante rare in lui risentono del terreno umido e ineguale che li sottende. Rievocando i gesti del costruttore di tetti di paglia, del pescatore, del rabdomante, e indugiando sull’antica corrispondenza fra aratura del campo e scrittura sulla pagina, Heaney connette senza sosta il mondo dell’infanzia e quello adulto della cultura, tentando di far sì che l’uno spieghi l’altro nel miracolo letterario della lingua. Tutto è metafora di un mondo da costruire, di una natura da tessere robustamente.

Occorreva infatti riparare i danni di una distanza: quella fra la nativa Ulster e la repubblica d’Irlanda, fra il gaelico autoctono e l’inglese imperiale, fra le semisepolte divinità guerriere del Nord oceanico e le Veneri del Sud mediterraneo; fra i padri e le madri che si affiochiscono e le stampelle che ancora ne sostengono le sagome nei vecchi armadi. Ogni transito è stato portato da Heaney a un punto critico, fatto di rimorso e di spietata autoindagine: ma mai distolto dal suo ondeggiante, generoso comprendere.

Il tramite, il messaggero, la “porta nel buio” sono stati – in cinquant’anni di attività poetica – molto diversi. Il giovanissimo Seamus amava rifugiarsi nei pozzi e negli anditi bui: era uno scavo edipico, al riparo di oracoli campestri come un salice semicavo, da cui ascoltare i suggerimenti terrestri. Poi la Storia ha alzato la voce, ha chiesto un impegno più cospicuo, estraendo dalla torbiera della rimozione i corposi simboli della violenza, di quella antica e di quella nuova, i Troubles nordirlandesi, eterna lotta fra tribù. E siamo alle poesie di North (1975) e del successivo, bellissimo Field Work (1979), dove già nasce il mito di Glanmore, il buen retiro di Heaney, la sede di una natura che assedia e ripara.

È venuto poi il tempo della penitenza: evocazione di fantasmi ricattatori e saturi di storie, che la pietas del poeta virgiliano raccoglie e rilancia, ma a costo di notevoli cicatrici. Qui troviamo un Heaney ingegnoso, perché la cucitura fra il verso e il mondo è a volte ostentata come una missione, un’abilità. Ma i lutti s’infittiscono e a quelli della Storia contemporanea si aggiungono quelli familiari, come nelle celebri Clearances ispirate alla scomparsa della madre, «una delle più alte e commoventi elegie», scrive Boitani, «mai composte in lingua inglese». Finché nella paradossale, dolorosa libertà di chi molto ha perduto, Heaney conquista la piena autorizzazione a «credit marvels», dar credito ai prodigi: ed è Seeing Things, il grande libro del 1991, quel “vedere cose” che in inglese ha il significato ricco di “stravedere”, di “avvertire presenze”. I quadri della memoria s’illimpidiscono, i ritmi che dai gesti dell’infanzia rurale risalgono ai ricordi diventano decisivi, predestinati alla scansione poetica; la cornice di un campo chiuso da un cancello potenzia la vista e innesca la visione, come fece con Leopardi la celebre siepe. È la fase più grata di Heaney, «un aperto ritorno», dirà lui stesso, «al lirismo, risultato di una felice disinvoltura davanti alla pagina bianca». Poesia di «miracoli quotidiani», di «straordinaria normalità», chiosa benissimo Sonzogni. Ne saranno forti echi le raccolte successive, fino alle ultime due, District and Circle (2006) e Human Chain (2010). Nemmeno lì gli spettri che infestano una vita declinante diventano presenze deformi o motteggianti, restando invece suggeritori di esperienza, sospetto di rinascite. In quel congedo, Heaney ha la forza di non ripiegarsi, e anzi si lega in una catena umana che ancora produce connessioni, inaudite salvezze.

Anche per questo, Heaney è un’intera antropologia, una miniera a cielo aperto di sentimenti gestuali, di luoghi genialmente cari, appropriati. In un’epoca in cui le masse popolari scelgono di separarsi, la sua opera è insieme il ponte e l’approdo a un’Europa complessa, segnata, ma anche nutrita di umanissimi slanci.

Seamus Heaney, Poesie scelte e raccolte dall’Autore, a cura di Marco Sonzogni, saggio introduttivo e Cronologia di Piero Boitani, Mondadori, Milano, pagg. CXL - 1194, € 80

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