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Siria, c’è chi sceglie di rimanere

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LETTERA DA DAMASCO

Siria, c’è chi sceglie di rimanere

 Bambini festeggiano su un trenino la fine del Ramadan
 Bambini festeggiano su un trenino la fine del Ramadan

«Tutte le persone normali almeno una volta hanno pensato di andarsene. Solo chi è senza cuore non si è posto il problema. Prima della guerra civile, in tre anni di lavoro avevo messo da parte 150mila dollari. America, Canada, Europa: potevo partire quando volevo, ovunque. Ma sono rimasto perché – credo - la realtà del conflitto la conosco, per quanto sia difficile e pericolosa. Quella del profugo no».

Così quei 150mila dollari, una fortuna nella Siria di oggi, Anas Nassar li ha investiti nel Nassarstore. Lo aiuta Mehiar Mahla Ali che ha appena compiuto 30 anni. Anas ne ha 32. «Cos’è il Nasserstore? Più che una galleria è un magazzino d’arte dove le persone vengono, portano idee e le realizzano: teatro, pittura, scultura, musica. Qualche tempo fa abbiamo fatto un festival con musica classica araba di Latakia e Homs, alternata a techno occidentale. Un successo. A seconda degli eventi, vengono qui 400/500persone. Una volta ne sono arrivate 1.500 e mi sono chiesto da dove venissero tutti quei giovani, in tempi come questi».

Sono i Rimasti. Casualità o scelta ponderata; coraggio necessario per affrontare qui un presente pericoloso o paura di un viaggio verso l’ignoto; opportunismo, amore, orgoglio, senza poter sapere di aver fatto la scelta giusta fino a quando tutto finirà. La guerra è così: offre un ventaglio di mille destini. Per quanto si tenti di plasmarne uno, una cannonata può regolare ogni cosa in un attimo. Qui a Bab Touma, il vecchio quartiere ebraico della città murata di Damasco - una fenomenale sovrapposizione di civiltà - la morte è casuale e discontinua. Non è come a Homs e Aleppo, dove la distruzione è stata e continua a essere metodica. Ogni tanto un colpo di mortaio cadeva in mezzo ai passanti ma ora il centro di Damasco è stato cauterizzato. La tregua imposta da qualche mese dall’Onu, qui in città funziona abbastanza, anche se di notte le opposizioni hanno ripreso a tirare colpi di mortaio dalla periferia.

I giovani non aspettavano altro per tornare a riempire della loro vitalità le strette vie dei quartieri murati. Nelle zone tradizionalmente più turistiche si tiene aperto solo nell’illusione di una normalità che non c’è, e all’imbrunire tutto torna silenzioso e deserto. A Bab Touma è il contrario: la vita esplode la sera e non è un’illusione ma una nuova speranza. È una Damasco sorprendente, che commuove anche chi non ama Bashar Assad. «Devi solo uscire di casa con la carta d’identità per farti riconoscere ai posti di blocco e ogni mattina chiederti cose che prima invece erano normali e scontate: ti svegli e ti devi preoccupare di vivere», sintetizza Anas.

Anas e Mehiar, artisti, sono due specie di Rimasti. A dire il vero Mehiar è anche un ritornato: è nato a Carrara dove i genitori erano andati a studiare all’accademia d’arte nella quale anche lui si è diplomato. È venuto a vivere a Damasco solo nel 2007, per quattro anni, fino a quando ha vinto una borsa di studio in Giappone. Poteva rimanerci. Invece l’anno scorso ha deciso di tornare e per un periodo che nessuna diplomazia al mondo oggi può prevedere, ci resterà. «Se una decina d’anni fa non avessi visto Damasco, non avrei avuto il coraggio di tornare», spiega Mehiar, evidentemente in italiano perfetto. Il padre, un famoso artista siriano, è stimato dal regime: questo aiuta, ma non basta a spiegare interamente la scelta di Mehiar. «Non posso fare a meno di Damasco, non posso pensare che prima o poi non torni ad essere il luogo che avevo conosciuto nel 2007, pieno di studenti occidentali venuti a studiare l’arabo».

A Ovest delle mura della città antica, a un paio di chilometri di traffico caotico come in ogni metropoli araba in pace o in guerra, il Museo nazionale di Damasco è chiuso e vuoto. Tutte le opere e i cimeli che vi erano esposti e che erano trasportabili, sono stati portati in luoghi nascosti. Solo una persona sa dove: Maamoun Abdulkarim, il direttore generale delle antichità e dei musei siriani, un altro tipo di Rimasto. «Quattro anni fa fu mia figlia a chiedermi di partire», spiega Abdulkarim. «Vuoi che tuo padre diventi un vigliacco?, le avevo chiesto. E così in famiglia non se ne è andato nessuno».

Appena è scoppiata la guerra civile, chiarendo subito che sarebbe stata incontrollabile, il direttore dei musei ha raccolto 300mila pezzi in tutta la Siria che era ancora raggiungibile, e li ha portati a Damasco. Anche 400 statue dalla zona che sarebbe presto stata conquistata da Daesh. L’intero patrimonio è ora conservato in luoghi segreti, come le opere del Museo di Damasco. Meticolosamente, il direttorato delle antichità ha catalogato e fotografato ogni pezzo; ha realizzato una mappa di tutti i siti archeologici e dei luoghi artistici del Paese, indicando cosa contenevano, lo stato dei danni e delle distruzioni. È tutto sul sito www.dgam.gov.sy . «Più di tre milioni di visite in due anni», dice Mahmoun Abdulkarim, cercando nonostante tutto le ragioni per continuare ad essere entusiasta. «Ora che abbiamo liberato Palmyra, posso dire di essere quasi confortato: ci siamo trovati di fronte a distruzioni tremende, ma non quelle che temevamo. Non è stato come a Mosul. I terroristi hanno distrutto i volti delle statue ma hanno lasciato a terra i pezzi. Li stiamo ricostruendo uno per uno e per la maggior parte dei casi non dovremo creare delle copie. È come ridare a un ustionato il suo volto: non sarà più tutto come prima ma sono convinto che in cinque anni Palmyra può essere ricostruita. Non parlo delle strade e degli alberghi. Mi riferisco al sito archeologico».

Il direttore sa che la guerra continua e all’orizzonte non c’è nulla. Ma descrive lo stato delle cose con la fiducia di chi intravvede un futuro. «Al Krak des Chevaliers, il castello crociato, abbiamo già iniziato i restauri. Il teatro romano di Bosra, vicino al confine giordano, non è nelle nostre mani. Ma è salvo: siamo in contatto con i comitati locali degli oppositori (i ribelli anti-Bashar, non gli islamisti di Jabat al Nusra né Daesh, ndr)». Perché quel fantastico teatro in basalto nero rimasto per centinaia d’anni preservato dalla sabbia, «non è politica: è patrimonio comune di tutti noi siriani».

«Il peggio è passato: almeno per le nostre opere d’arte. Non so se anche per la Siria», conclude Maamoun Abdulkarim, nel suo ufficio al direttorato, ritrovando il necessario realismo. Ogni mattina, dalle 6.30 alle 9, non per ordine del regime né dei suoi oppositori, quasi tutte le radio siriane trasmettono le canzoni di Fairuz. Sham fm, Suriana, Madina: su ogni lunghezza d’onda c’è solo lei. Le tristi melodie d’amore della cantante libanese avevano accompagnato i combattenti e le vittime di tutte le fedi e i partiti nella guerra civile in Libano, fra il 1975 e il ’90. Ora offrono momenti comuni di conforto a tutti i Rimasti nella tragedia senza fine siriana.

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