Cultura

Tre volte Giacomo Manzoni

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Tre volte Giacomo Manzoni

Giacomo Manzoni, classe 1932
Giacomo Manzoni, classe 1932

Dopo secoli, troppo brevi, di pensiero critico, di dubbio critico, di timidi cenni in direzione di una libertà troppo fragile, ecco, dalla cloaca fideistica e autoritaria riemergono i dogmi, le fantasticherie ora religiose, ora distopiche in chiave vuoi orwelliana vuoi nazi-staliniana vuoi firmicomaterniana. Dilagano formule apodittiche, tanto consolatorie quanto deprimenti: il solito belato di spirituali furbastri, «i giovani hanno bisogno disperato di certezze», o il secolarizzato guaito d’incartapecoriti vecchietti: «svecchiare, svecchiare!» (questo, applicato di preferenza ai programmi scolastici). Oramai, belati e guaiti ci hanno convinti: ci siamo pentiti (da anni ciò fa tendenza, in questioni di “feeeeeede” o di “giusti-z-ia”) e ci siamo persino convertiti. Oggi, finalmente, siamo politicamente e culturalmente corretti, e questo ci dà il diritto di parlare. Come gridò la Spagna dopo la morte di Francisco Franco (già ammirato da Pio XI): «Habla, pueblo!».

Non sono, dunque, i santamente urlanti e castamente squittenti “papa boys” gli unici a coltivare certezze. Anche noi ne abbiamo, che diamine! Tre certezze in particolare. La prima: senza l’opera di Giacomo Manzoni (nato a Milano lunedì 26 settembre 1932), senza il suo lavoro di compositore e senza l’idea che l’ha indirizzato e che continua a guidarlo, senza il suo ruolo di grande traduttore quasi sempre prioritario e pioniere, senza la sua mediazione di germanista sdegnoso di ogni alterigia specialistica e accademica, la cultura europea sarebbe molto più povera e debole di quanto oggi essa, ripetendo le sciagure dei secoli III-VI dopo Cristo, non sia. A Giacomo Manzoni dobbiamo una gratitudine più limpida e più esplicita di quanto non sia stato dichiarato. Seconda certezza: Manzoni è una figura pubblica di rara civiltà. I suoi percorsi, la sua perizia filologica che è anche “onestà” (finalmente la parola acquista un significato non banale e non mediocre, applicata a lui), la coerenza perseguita con disciplina intellettuale oggi fatta a pezzi da un diffuso scempio quotidiano, “fanno sistema”: un ininterrotto es muss sein preclude l’accesso, nel suo pensiero, nella sua ars et scientia musicae, a imbarazzanti contraddizioni.

Terza certezza: oh, no, coloro che hanno a cuore eccetera, che pontificano sui cittadini che devono collaborare con le istituzioni eccetera, sull’auspicio che anche dalla società civile eccetera, non affiderebbero mai a Giacomo Manzoni, con la reverenza cui ha diritto, il compito di sostituire senza complimenti certe figure potentissime, arroganti e men che mediocri, e di essere lui a regolare, correggere, ispirare i settori in cui lo Stato (oggi, cosiddetto tale, dopo il calar di brache durante la visita romana di Rohani o dopo la “vaticana” e sconcia defenestrazione di un sindaco di Roma) dovrebbe occuparsi di cultura e di beni culturali. Lo stesso è avvenuto a Luciano Berio, che ascoltammo divertiti a Fiesole diciannove anni fa, in pieno veltronismo imperante nella “cultura” (!!!), mentre commentava la propria inesistenza agli occhi di chi, legiferando con qualche impaccio sulla musica, si guardava bene dal rivolgersi a lui come sarebbe stato (anche “politicamente”) naturale. Così come, a una mente luminosamente laica qual è quella di Giacomo Manzoni, giammai si è rivolto il biancovestito spregiatore della Nona di Beethoven in cerca di laici interlocutori “di rilievo”, bensì a Sua Beatitudine sir Gutgeboren, il quale ha creato dal nulla, imitando Dio, i Quartetti per archi di Chopin e altri capolavori “inauditi”.

Visitiamo il libro? Come sempre, dinanzi a un volume di autori vari, preferiamo individuare un passo decisivo, una chiave di volta, piuttosto che accontentarsi di uno spolverìo qua e là fingendo che esso sia un “unicuique suum”. In primo luogo, anche sotto l’aspetto materiale ed esteriore, il libro è imponente e splendidamente realizzato, con molti inevitabili esempi musicali in facsimile, con schizzi e abbozzi del compositore, con un corredo iconografico mai di facciata e mai esornativo la cui pertinenza (e, sovente, rarità) suscita ammirazione. Gli elementi grafici e iconici sono forniti all’editore Gino Di Maggio dal Fondo Manzoni della Fondazione Cini di Venezia.
L’ultima parte è costituita da 17 scritti di Giacomo Manzoni, fra cui Lettera a Riccardo Malipiero, Edgard Varèse, Wagner e il 1849, Musica e poesia, Il nostro Schönberg. La prima parte raccoglie interventi di Salvatore Natoli, Giuliano Scabia (una poesia in acque agitate), Pietro Milli, Giacomo Albert, Gillo Dorfles, Fracesco Leprino, Luigi Pestalozza, Laurent Feneyrou, Amgelo Orcalli, Raffaele Pozzi, Alessandro Melchiorre, Paolo Petazzi, Markus Ophälders, Maurizio Cucchi, Michelangelo Coviello. Alla fine, il catalogo delle opere di Giacomo Manzoni. Daniele Lombardi è il grande indagatore, selettore, razionalizzatore, ordinatore e architetto di questi doni dell’intelligenza, dell’amicizia tra artisti, poeti e filosofi. Quanto a Manzoni, fra gli innumerevoli passi in cui egli si esprime con rara forza (oggi rara!), scegliamo quello (pagg. 350-351) in cui egli fa convergere due interrogativi e due vie possibili: la crisi di pubblico di cui soffrono in Occidente i compositori di musica forte in questo inizio di secolo XXI non può essere considerata separatamente rispetto al disagio e alla disaffezione del cittadino il quale non possa più sentire amore per la città, per la polis, per lo Stato. Segnaliamo queste pagine, a dispetto di coloro che usano sbraitare: «Basta, non parliamo di politica, parliamo di musica», ignari di un piccolo dettaglio: in epoca di Talebani, di Boko Haram, di Daesh, di Pasdaran e di “simile lordura” (Dante, Inferno, XI, 60), il discorso sulla musica rischia di essere il tema prioritario e simbolico di ogni scelta, nella polis che verrà.

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