È ben noto che il Rinascimento italiano brulicò di figure intellettualmente brillanti, in grado di eccellere in ambiti anche molto diversi. Il Seicento fu in questo senso periodo molto meno interessante, ma non mancarono eccezioni. La principale fu un letterato e teorico delle arti, che Italo Calvino avrebbe definito «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo». Un veloce sguardo alla biografia di questo autore può dar conto della sua versatilità.
Acquisì fama letteraria ancora molto giovane, quando, su invito dell’Accademia Fiorentina, tenne due Lezioni circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno di Dante, in cui calcolò le dimensioni delle bolge dantesche e stimò la profondità dell’Inferno in circa 3.200 miglia. In seguito il Nostro si concentrò sulla diatriba che opponeva i seguaci di Tasso a quelli di Ariosto, schierandosi convintamente con il secondo. A Torquato, infatti, rimproverava «la scarsezza della fantasia e la monotonia lenta dell’immagine e del verso», mentre dell’Ariosto lodava «non solo lo svariare dei bei sogni, il mutar rapido delle situazioni, la viva elasticità del ritmo, ma l’equilibrio armonico di questo, la coerenza dell’immagine, l’unità organica – pur nella varietà – del fantasma poetico». Ma, come detto, il Nostro, oltre che ottimo critico, fu anche grande scrittore: su qualunque tema scrivesse, le sue opere furono infatti prese a modello della migliore prosa toscana.
Figlio di un grande musicista, il Nostro si occupò anche di musicologia, difendendo la tesi secondo cui la musica vocale è superiore a quella strumentale: «Non ammireremmo noi un musico, il quale cantando e rappresentandoci le querele e le passioni d’un amante ci muovesse a compassionarlo, molto più che se piangendo ciò facesse?... E molto più lo ammireremmo, se tacendo, col solo strumento, con crudezze et accenti patetici musicali, ciò facesse». Sullo sfondo di questa idea c’è un’estetica “emotivista”, secondo cui ciò che conta nell’arte è soltanto la trasmissione delle emozioni.
Rispetto alle arti figurative rifiutò la tesi michelangiolesca del primato della scultura sulla pittura. A suo giudizio, infatti, «A quello poi che dicono gli scultori, che la natura fa gli uomini di scultura e non di pittura, rispondo che ella gli fa non meno dipinti che scolpiti, perché ella gli scolpe e gli colora».
Ma le sue competenze non si fermarono alle arti. Fu anche celebrato astrologo, e i suoi oroscopi (soprattutto i cosiddetti “temi natali”) erano ricercatissimi e ottimamente pagati. E di denaro il Nostro aveva gran bisogno: gliene spillava il fratello, musicista spiantato, e gliene chiedeva in continuazione l’amante, da cui aveva avuto tre figli. Eppure, come scoperto dal Bucciantini e dal Camerota, alla validità dell’astrologia il Nostro, almeno in età avanzata, non credeva affatto. Di lui così scriveva, infatti, l’Arcivescovo di Siena, che lo aveva avuto ospite per qualche per qualche mese: «Astrologo di tanto nome, [dell’astrologia] se ne ride interamente, e si burla come di professione fondata sopra incertissimi se non falsi fondamenti». Ma, si sa, pecunia non olet.
Se un talento gli mancò, fu quello scientifico. I suoi errori, quando tentò di occuparsi di scienza, furono macroscopici: pensava che le comete fossero fenomeni dovuti a riflessi luminosi; rifiutò come assurda la tesi di Keplero secondo cui le orbite planetarie sono ellittiche; ritenne che il moto delle maree fosse dovuto al moto terrestre. Insomma, la scienza proprio non faceva per lui. Ma, per lodarlo, non basta forse che sia stato «il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo»?
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