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Fermare la morte danzando

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Danza

Fermare la morte danzando

È un energico giovanotto di trentasei anni il Festival «Oriente Occidente» di Rovereto, oggi intitolato «Corpi e confini», ma ne dimostra il doppio per quanta ricchezza di danza ha saputo offrire al pubblico italiano e non solo. Da un tempo che pare irraggiungibile, Paolo Manfrini e Lanfranco Cis, i suoi battaglieri direttori, non hanno mai smesso di ricercare novità di confine, tra Ovest ed Est, ma anche tra danza e ibridi teatrali, acrobatici, circensi, nobili e di strada. Abbiamo così conosciuto tutta la nouvelle danse quand’era in grande spolvero; ci siamo tuffati nell’immaginario dei primi seguaci italiani del Tanztheater con le sue sacerdotesse doc e naturalmente con lei, Pina Bausch, la regina.

Tra tanti americani maggiori, Trisha Brown e l’indimenticabile Merce Cunningham, restano scritti nella memoria gli exploit di chi qui ha conquistato la fama italiana, come Emio Greco, nel 2002: un brindisino ancora sconosciuto da noi, ma attivo in Olanda. Bolero, il suo assolo cult, ritornerà proprio a fine festival, però moltiplicato per sei danzatori del Ballet National de Marseille. Sarà uno shock rivederlo, magari assieme al vecchio/ nuovo UTT (1981-2014) di Kō Murobushi e Carlotta Ikeda, coppia storica del giapponese Butoh, deceduta quasi dandosi la mano ma non prima di aver consegnato alla giovane Maï Hshiwata, la propria vertiginosa immersione nella “danza delle tenebre”.

Molte tenebre, in realtà meravigliosamente addobbate da getti di fumo tanto danzante da assottigliarsi in acqua e gonfiarsi in cirri e nuvole dense, sono state nel frattempo protagoniste di Attends, attends, attends…(pour mon pére). L’accorato assolo, destinato dal celebre Jan Fabre, coreografo-regista e artista visivo, a Cédric Charron, forse il danzatore più fedele di Troubleyn, il suo centro-teatro ad Anversa, ha dato il via alla prima giornata del festival. L’hanno preceduto due debutti giovanili -I would like to be pop di Davide Valrosso, un duetto dal linguaggio interessante ma dilatato e l’ingenuo-insipiente Il coraggio di stare di Tommaso Serratore.

In Attends, attends, attends… Cédric, in rosso con cappello, e lungo palo di legno, ha ancora una volta personificato Caronte - tra l’altro traduzione dal francese del suo stesso cognome: Charron -, cercando di traghettare un padre in procinto di morte nel regno di chi non è più. Padrone di ogni trasformismo tecnico ed espressivo, l’interprete si rivolge, con uno o due microfoni, al vero genitore del coreografo, a tutti i padri morenti, ma anche alla sua guida artistica e…paterna. Fabre è maestro generoso: gli ha concesso di inserire nella serrata e straziante messinscena, brevi squarci della sua stessa biografia, laddove, a esempio, tra balzi, giri quasi accademici, urla di bestia feroce incalzante a terra, si libra con parole erotiche verso un amore lontano ma che percepiamo vibrare da vicino.

D’altra parte, tutto scuote in questa pièce del 2014: dal piglio rituale e dionisiaco per trattenere il padre con sé emergono parole ripetute e variate sette volte, quante sono le monete d’argento che il figlio vuole posare su occhi, orecchie, piedi e infine bocca del genitore. I sintagmi alati di Fabre intrecciano vita e arte, con quel “lasciami intonare il canto del desiderio” simile a una preghiera. Quando il padre si allontana sempre più e l’intensa musica di Tom Tiest si placa, il lungo palo diviene il remo di una barca sullo Stige. Caronte, il traghettatore, sprofonda nel finale portando sulla pelle inferocita, sul corpo ferito la sensazione di un dolore tracimante, ma anche di un’infinita gratitudine per essere diventato un contemplatore della bellezza pur nel tergiversare, nell’indugiare, nell’attendere che per una volta vita e morte, come a teatro, non si diano la mano.

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