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Regina fatata di Purcell

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Musica

Regina fatata di Purcell

«The Fairy Queen»
«The Fairy Queen»

Insieme al biglietto d’ingresso ti danno una mappa. Bene, viene subito da pensare, rigirandola, in cerca dell’orientamento: come minimo ci si perderà. O nel buio dei giardini o nei meandri esoterici di Villa Rufolo, scrigno di sempiterna bellezza. Abbagliante, come scrisse Wagner, a picco sul golfo di Amalfi. «1, 2a, 2b, 4c»: le indicazioni sulla cartina sembrano una partita a monopoli. Altro che Fairy Queen di Purcell, primo aristocratico esperimento di opera al Festival di Ravello (64esima edizione) firmata a quattro mani dal regista Denis Krief e dal direttore Antonio Florio con la sua Cappella Neapolitana. Non resta che affidarsi alle arti magiche della regina delle fate.

Che risulteranno prodigiose: mai opera barocca volò tanto veloce. E teatrale, autentica, coinvolgente. Rispettosa di tutti i canoni teatrali, dei luoghi deputati, del ventaglio di affetti. A volte ironica, irriverente. Per lo più teneramente commossa. E pure danzante. E alla fine... dolcissima. Ma andiamo con ordine: il Seicento, inizio del teatro in musica, è ancipite. A lungo dimenticato, venne prima riesumato e adattato al gusto del primo Novecento, poi trasformato in icona. Come mai fosse stata inventata, tanta colta e aristocratica noia, restava un mistero.

Finché non si è arrivati ai nostri giorni. Quando ad esempio un gruppo di fantastici musicisti come la Cappella Neapolitana (ex-Turchini) hanno preso l’abitudine di leggere da capo queste partiture scongelandole, unendo lo scrupolo filologico con il piacere di canto, sorprese, parola teatrale e intonazione. E così siamo all’ingresso di Villa Rufolo, insieme a centocinquanta-duecento turisti di lingue diverse, in attesa di Purcell. Che risulterà alla fine molto italiano: nel disegno degli affetti, nel fraseggio spaziato, nelle tinte pastello. Simbolico di quello stile internazionale, che dalle nostre piccole corti aveva conquistato il mondo.

È Florio coi suoi a guidarci (la mappa finisce ben presto ripiegata in borsetta) mentre i primi numeri strumentali risuonano vicini, negli ampi spazi del giardino, grazie alla sapienza dei tecnici di Tempo Reale. Il pubblico in processione li segue, fotografando tutto. Un impeccabile sevizio di giovani guide illumina gradini e anfratti. Ingrediente primo di questa festa musicale è la notte. E dalla notte Krief fa germinare, con mano esperta e sottile, il mondo magico delle fate, dei comici, di Titania malandrina e di Mopsa buffa. Shakespeare respira insieme a noi. Ma anche il Verdi di Falstaff.

Si cammina per due ore, fuori dal tempo. Wagner sarebbe stato contento di questa trasformazione concreta in spazio. Con un piccolo sberleffo proprio la parte del poeta ubriaco viene cantata sotto la targa che ricorda la sua scoperta dei giardini di Klingsor. E chissà se per caso le alte chiome del pino marittimo, come un grattacielo, si scuotono lì turbate (per approvazione? per diniego?). Nella grotta dei cavalieri si duetta e si amoreggia, sulla terrazza a picco sul mare si stendono lenzuola, sul prato si danza. Gli undici cantanti, in abiti ricamati modello Positano, presi da una bottega del posto, svolgono veloci più ruoli, correndo a intrecciarsi in coro, quando necessario.

Eccellenti, tanto professionisti che non si può credere siano per lo più ancora allievi del Conservatorio di Napoli. Istruiti da Florio, plasmati da Krief, irretiscono con voci belle, gesti fatati. Olga Cafiero è la Notte, Daniela Salvo il Pianto, Rosario Totaro la sussiegosa Mopsa, en travesti: niente baci, proclama mille volte al vecchio pretendente. Poi ritorna, spiluccandosi i ciuffi del pagliaio... Carlo Feola è un morbido giovane basso: da Imene è trasformato in cuoco. Perché la festa, dove anche il pubblico danza, sui passi staccati giusti dalla Cappella Neapolitana, si conclude col trionfo di una torta a tre piani. Nuziale e filologica (The Fairy Queen venne scritta per un matrimonio della corona inglese, nel 1692), nella Ravello dei mille matrimoni. Inaspettata, da gustare per tutti.

Ma la torta, nella volata finale di Ravello Festival, non è la sola sorpresa: il pianoforte di Beethoven vi svetta, solido e scolpito come le mille colonne che punteggiano la città. Proporre l’integrale dei Concerti e delle Sonate è il gesto che qualifica e conferisce identità al programma. Ancor più perché se i Cinque Concerti, in due sere, sono affidati alla lucida interpretazione di Alexander Lonquich, anche direttore (o concertatore) dei cameristi di Monaco, le Trentadue Sonate, in nove appuntamenti (anche a mezzanotte, seguitissimi) vedono dodici pianisti scelti tra i migliori italiani, tra i venti e i trent’anni.

Splendidi, con le punte di Federico Colli, per l’invenzione del suono e il fraseggio lirico, inventivo, e Giuseppe Andaloro, per il peso sinfonico, la severità di impianto. Circondati da Leonora Armellini, ardita e virtuosa, Leonardo Colafelice, febbrile e cantante, Federica Bortoluzzi, slanciata e fiduciosa. E ancora con la bravura di Costanza Principe, Gloria Campaner, Andrea Secchi, Bruno Mereu, Giovanni Nesi, Giovanni Doria Miglietta e Alessandro Taverna. Sfaccettati e soprattutto di magnifica scuola italiana. Nel loro Beethoven abita la parte migliore dell’Italia. Tutti insieme, sono da ascoltare ancora.

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