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«Venere» torna a turbare Urbino

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Arte

«Venere» torna a turbare Urbino

Tiziano Vecellio, «La Venere di Urbino» (1538), Firenze, Galleria degli Uffizi
Tiziano Vecellio, «La Venere di Urbino» (1538), Firenze, Galleria degli Uffizi

Nell’ottobre del 1631 a Firenze piovve sul serio sul bagnato. In una città che si presentava oltremodo ricca di opere d’arte accumulate grazie al collezionismo mediceo - con gli Uffizi già allestiti e rigurgitanti di capolavori - si era venuta ad aggiungere, come se non bastasse, l’eredità di Vittoria della Rovere, ultima discendente del glorioso Ducato di Urbino.

Essendosi estinto il ramo maschile della dinastia, il Ducato faceva ritorno alla Chiesa, ma la piccola Vittoria (che allora aveva solo nove anni) era riuscita a salvare il suo «Guardaroba» personale dalle brame del Legato pontificio Antonio Barberini e a portarlo a Firenze, dov’era promessa sposa al Granduca Ferdinando II de’ Medici. Il loro matrimonio verrà celebrato nel 1637.

I beni di Vittoria giunsero a Firenze a dorso di mulo, oltrepassando il Passo di Bocca Trabaria e seguendo la via di Sansepolcro e Arezzo. Nel pesante convoglio si trovava, tra l’altro, anche uno strepitoso nucleo di opere d’arte, comprendente una statua antica in bronzo (il celeberrimo Idolino di Pesaro) e sessanta «quadri buoni», tra i quali spiccavano meravigliosi dipinti di Piero della Francesca (i Ritratti di profilo dei duchi d’Urbino Federico da Montefeltro e Battista Sforza), di Raffaello Sanzio (l’Autoritratto, i Ritratti di Elisabetta Gonzaga e Guidobaldo da Montefeltro), di Federico Barocci (il Ritratto di Francesco Maria II della Rovere) e di Palma il Vecchio (la Giuditta). Fuori dal comune era anche il nucleo di opere di Tiziano Vecellio, con i Ritratti di Francesco Maria I della Rovere e di Eleonora Gonzaga della Rovere, e soprattutto con un quadro alquanto osé destinato a diventare notissimo: la conturbante Venere di Urbino, oggi conservata agli Uffizi.

Nell’ultimo decennio, questo famoso dipinto di Tiziano ha lasciato più volte il museo fiorentino per essere ammirato in mostre organizzate a Madrid, Bruxelles, Tokio e Venezia. Ma, dopodomani, la Venere di Urbino compirà un viaggio assolutamente eccezionalmente: tornerà a “casa”, ovvero rientrerà per quasi quattro mesi nella “sua” Urbino, nel Palazzo Ducale, ripercorrendo a ritroso la strada di Arezzo, Sansepolcro e Bocca Trabaria, fatta a dorso di mulo quasi quattro secoli fa.

Questo singolare prestito - voluto e concertato da Eike Schmidt, direttore degli Uffizi e da Peter Aufreiter, direttore del Palazzo Ducale di Urbino - permetterà non solo di gustare il quadro nel suo contesto originario ma anche di riattivare l’interesse per il meraviglioso Palazzo Ducale di Urbino, che – al contrario degli Uffizi – non è propriamente assediato dai turisti.

D’altro canto, il quadro ha una storia così intrigante e persino così piccante che non mancherà di suscitare l’attenzione dei visitatori moderni, così come attizzò, e di molto, la curiosità dei visitatori antichi.

A quel che sappiamo dai documenti, la storia del quadro comincia con un solenne capriccio. Nel 1538 Guidobaldo II della Rovere, giovane erede del ducato di Urbino e assiduo frequentatore di Venezia e della bottega di Tiziano Vecellio, scrive con somma agitazione all’ambasciatore Leonardi perché impedisca in tutti i modi a Tiziano di vendere ad altri la conturbante «donna nuda» (cosi dice nella missiva) che egli aveva visto poco prima nella sua bottega e che voleva assolutamente per sé, anche se sua madre, Eleonora Gonzaga, si era rifiutata di finanziare l’acquisto. Guidobaldo, innamorato pazzo della «donna nuda», assicurava il suo intelocutore che, pur di avere quell’opera, sarebbe stato disposto, disse, «a impegnar qualche cosa del mio».

Sappiamo che Guidobaldo la spuntò sulla madre taccagna e che il quadro approdò quell’anno a Urbino (ma non sappiamo esattamente chi lo abbia pagato). L’aitante erede del Ducato s’era sposato da quattro anni (1534) con la giovanissima Giulia Varano da Camerino. Il quadro era forse (e sottolineamo “forse”) destinato al segreto del loro cubicolo, per scaldare il sangue a Guidobaldo e insegnare a Giulia ad essere sensuale e fedele al tempo stesso.

Quando Vasari, dieci anni più tardi (1548), vide il dipinto nel Guardaroba Ducale di Urbino, quasi se ne turbò, e nel 1568 lo descrisse in modo a dir poco imbarazzato: «Sono, nelle guardaroba del medesimo duca, di mano di Tiziano, due teste di femmine molto vaghe ed una Venere giovinetta a giacere con fiori e certi panni sottili molto belli e ben finiti».

Notiamo subito che la «donna nuda» di Guidobaldo è diventata per Vasari una «Venere giovinetta», ma notiamo anche che Vasari evita di soffermarsi sulle conturbanti beltà della dea facendoci notare, invece, dettagli francamente piuttosto secondari come i panni «belli e sottili». Il gaio Rinascimento è proprio finito e la Controriforma avanza a gran giornate. Il ritratto lascivo di una «donna nuda» si trasforma e nobilita in una più accettabile rappresentante dell’olimpo mitologico. Nel dipinto, in effetti, si ravvisa la posa classica della Venere Pudica che con una mano nasconde il pube, come accade nell’analogo quadro di Giorgione oggi a Dresda, considerato il modello di Tiziano. Se osserviamo, la Venere di Urbino ha in mano delle rose (fiore sacro alla dea) che però stanno cadendo e sfiorendo, così come sfioriranno la giovinezza e la bellezza. Anche sul davanzale della finestra, sul fondo della stanza, è messo in evidenza un vaso di mirto, pianticella notoriamente sacra a Venere. E mentre il cagnolino è un tradizionale attributo di fedeltà, qualcuno ha ravveduto nell’anello, nel bracciale e nell’orecchino di perla indossati dalla dea i simboli di un matrimonio. Va detto subito che i moderni esegeti hanno letteralmente preso d’assalto il quadro, arrampicandosi come funamboli a ogni dettaglio nel tentativo di cavarne i significati più sofisticati e reconditi. Ma alcune di queste “ricerche” lasciano piuttosto scettici. Una per tutte: la scenetta sul fondo delle due donne, che ad evidentiam stanno semplicemente estraendo gli abiti dal cassone per farli indossare alla «donna nuda», sono state interpretate da alcuni come allegorie della fertilità coniugale. Sarà vero? Il dubbio serpeggia.

È certo, invece, che questo quadro malizioso e sensuale continuò per decenni a generare imbarazzi agli eredi di Guidobaldo. Sappiamo che i duchi d’Urbino tendevano a non mostrarlo a nessuno. In una lettera del 1600 - che Francesco Maria II delle Rovere aveva scritto a un nobile milanese che gli aveva chiesto una copia -, il duca confessò esplicitamente di aver pensato di distruggere quella tela imbarazzante, ma che a fermarlo era stato il fatto che il quadro fosse oggettivamente di «qualità» e soprattutto fosse «opera di Tiziano». E quando Vittoria della Rovere ereditò il dipinto, non a caso la Venere di Urbino non si trovava più a Urbino ma nella più appartata Villa Imperiale di Pesaro.

Allo stesso modo, quando la «donna nuda» giunse a Firenze, per lunghi anni venne messa al sicuro da sguardi indiscreti nella Villa di Poggio Imperiale. La sublime bellezza del dipinto, però, non poteva sfuggire agli eruditi e agli artisti di Firenze, che cominciarono a lodare il quadro nei loro scritti e trarne copie e incisioni. Così facendo, avviarono l’eccezionale fortuna della composizione tizianesca, una fortuna che durerà ininterrotta fino a Ottocento inoltrato, ispirando, tra l’altro, l’Olympia di Edouard Manet.

La Venere di Urbino venne appesa nella Tribuna degli Uffizi solo nel 1736. Ma anche in questo frangente si dovette prendere qualche precauzione per non scandalizzare troppo i visitatori più bigotti e timorati. E così si ordinò al pittore Carlo Sacconi di dipingere una tela con l’Amor Sacro e l’Amor profano da porre davanti alla Venere di Tiziano, in modo da lasciare in vista solo la testa e un braccio della dea. Su esplicita richiesta, i visitatori meno bigotti e meno timorati potevano far sollevare la composizione del Sacconi e ammirare la «donna nuda» in tutta la sua conturbante bellezza. Questo marchingegno di censura (rimosso nel 1784) non fece altro che attizzare la curiosità dei voyeurs e accrescere la fama “erotica” del dipinto. È risaputo che moltissimi visitatori chiesero di alzare il “velo” del Sacconi, compreso il Marchese De Sade che però, davanti al quadro, si disse alquanto “turbato” (incredibile! De Sade turbato da un quadro!).

La “venerazione” della Venere divenne così assidua e insistente che, a un certo punto, fu necessario proteggere la tela con una sottile rete di fil di ferro, in modo da impedire alle mani dei “veneratori” di toccacciare le beltà della «donna nuda» e ai copisti di rovinare la tela con i continui ricalchi. Ma poiché i copisti insistevano per avere accesso al quadro, si trovò un’ingegnosa soluzione: a loro disposizione venne messa una bella copia antica che tutti liberamente potevano ricalcare. E toccacciare.

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