Cultura

Arte del viaggio, arte dell’addio

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andrea cortellessa

Arte del viaggio, arte dell’addio

Davvero il viaggio è finito - con la sua pretesa di esplorare e conoscere l’Altro, e di trasformare noi stessi - , ed è scomparso ogni altrove? Questa la malinconica tesi di Levi-Strauss all’inizio di Tristi tropici (1955), confermata dal turismo di massa, dal consumo seriale dell’esotico, dalle “avventure nel mondo” pianificate e low cost. Eppure la letteratura, con il suo punto di vista straniato, ci offre risposte lievemente diverse, perfino sorprendenti. Con gli occhi aperti. 20 autori per 20 luoghi, a cura di Andrea Cortellessa, è un libro bello, vario, ricco di illuminazioni geo-antropologiche (forse solo un po’ sopraffatto da un eccesso di autospiegazioni e precisazioni di poetica). Non raccoglie solo 20 “pezzi” - diari, ricognizioni, esercizi di stile, visioni, paesologie - di altrettanti scrittori italiani, ma contiene - ambiziosamente - una teoria dell’esperienza. Cortellessa, in una densa, super-enciclopedica introduzione, cita l’amato Manganelli: «ogni viaggio comincia con un vagheggiamento e si conclude con un invece». Il viaggio reale non si limita mai solo a confermare il nostro immaginario. Vi è una incrinatura, «una connessura quasi impercettibile», in cui si insinua l’esperienza. Ecco, la possibilità dell’esperienza, negata troppo perentoriamente dalla vulgata benjaminiana ( e dal postmodernismo), si rimette in gioco attraverso quell’ “invece”, attraverso cioè la contestazione da parte dell’individuo della ovvietà - ingannevolmente trasparente - del dato, e intrecciando visibile e invisibile, senso della realtà e senso della possibilità. Andando a Sud ti aspetti il profumo delle zagare (secondo un cliché qui rievocato) e luminosi aranceti, e “invece” incontri altri odori e magari ti imbatti nelle coltivazioni del Paese dei Cachi … Certo, ciò che vediamo «non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo»(Pessoa citato da Samonà, autore di una autobiografia di viaggio decentrata), però per capire ciò che siamo ci serve pur sempre una sponda esterna, qualcosa che non coincide con noi stessi. Attorno a questa polarità, tra l’Assolutamente Diverso e il Sempre Uguale, tra alterità dei luoghi e sguardo deformante, tra pigri automatismi della mente e meraviglia (anche orrorifica, vedi Ortese) della visione, tra stereotipi dell’immaginario e resistenza del corpo, ruotano tutti i contributi del volume. Helena Janeczek dichiara una «sfiducia nella libertà dell’invenzione che, senza doversi misurare con qualcosa che non si trovi alla sua portata, tende a riprodurre ciò che ha già visto, letto, pensato e immaginato». Infatti solo nell’attrito tra l’immaginazione e tutto ciò che oppone resistenza, tra la lingua e i «vasti mari di oscurità e insignificanza» del mondo (Trevi), si libera la scintilla creativa, lo scatto aereo della conoscenza. Altrimenti è come nei disegni dei bambini, dove, osservava Simone Weil, tutto è gratuito e dunque monotono. E forse non è interamente vero quanto dichiarato da Paolo Morelli, autore di uno de contributi più suggestivi, che ogni volta che raccontiamo la verità dei fatti, anche solo la colazione di stamattina,«quei fatti li stiamo inventando». Direi piuttosto che il racconto, non rispecchiando né inventando i fatti, semplicemente li rivela. L’Avana di Ottonieri se fosse totalmente inventata non ci appassionerebbe: si srotola invece come abbagliante rivelazione della sua «santità irriconoscibile e sincretica»; perciò Antonella Anedda all’inizio della sua escursione a Lesbos scrive «Volevo vedere…»( e solo “vedendo” le cose di persona, e non da spettatori mediatici, potrebbe schiudersi una «pietà omerica» verso gli sventurati e li ultimi); mentre Andrea Bajani sente, quasi pasolinianamente, la costrizione dello stile e fa balenare una analogia tra l’asfalto di Bucarest che si rompe(la terra «esce fuori come un’ernia») e l’implosione della propria scrittura troppo uniformemente levigata; e Trevisan ci informa: «dovevo assolutamente vedere con i miei occhi…»; e ancora Alessandro Leogrande, oggi il più bravo di tutti nel genere del reportage, che cita David Lynch ma poi ha bisogno di una tangibile verifica sul campo, per ritrovare l’Albania specchio veridico del nostro paese.

Nelle varie tipologie del viaggiatore, riprese da un saggio di Luigi Marfé - il collezionista erudito, il metaviaggiatore, lo sradicato, l’antiturista politico - la più interessante è quella ultima, dei migranti e dei loro controviaggi (manca invece il pellegrino), disposti a cercare «gli spazi di alterità del mondo in cui vivono» (da Naipaul e Walcott a Rushdie e a Jamaica Kincaid). Per loro l’altrove non scompare mai. Uno sguardo laterale e periferico, attivamente passivo - che permette cioè di «farsi trovare dal mondo» (Sara Ventroni), perfino di ritrovare una vita nuova (Marilena Rendi) - e che ci riguarda tutti.

Solo correggerei un assunto che circola in queste pagine, suggerendo un ulteriore interrogativo. Lo scrittore in viaggio racconta le cose non come se fosse la prima volta ma come se fosse l’ultima. Un modo di trattenere per un attimo, e illusoriamente, tutto quanto irrevocabilmente perdiamo, e anche «di convincerci di essere stati vivi»(Trevi). Allora il viaggio nello spazio - che riusciamo a orientare, e che è anche un confondersi con altri uomini, «non avere un’identità» (Gibellini) - potrebbe svelarsi come figura (e sostituzione) di un altro viaggio, nel tempo, che è poi un viaggio ineluttabile, fuori di ogni nostro controllo, destinato a un altrove che delimita il nostro orizzonte e conclude l’identità. Nel suo Congedo del viaggiatore cerimonioso Giorgio Caproni si prepara con «disperazione calma» all’ultimo viaggio, salutando i compagni. L’arte del viaggio diventa così un’arte dell’addio: solo se guardiamo le cose ad occhi aperti ma soprattutto come se fosse l’ultima volta, queste ci rivelano un significato riposto. E dall’informe della realtà possiamo estrarre un ordine - quello della scrittura - che finge per un momento di essere eterno.

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