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Caro Enard, hai perso la Bussola

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Caro Enard, hai perso la Bussola

Lo scrittore Mathias Enard, classe 1972
Lo scrittore Mathias Enard, classe 1972

Il francese Mathias Enard ha scritto una decina di libri, alcuni dei quali già apparsi in italiano, vive a Barcellona, conosce l’arabo e il persiano, ha quarantaquattro anni. Il suo ultimo romanzo, Bussola (ora pubblicato da e/o nella traduzione di Yasmina Mélaouah), ha vinto il premio Goncourt 2015. Si dice che sia un grande romanzo. Certamente è un racconto ambizioso, ricco di situazioni e di informazioni, saggistico a tratti, digressivo e curioso, e corposo.

Parla di Oriente, o meglio: di medio-Oriente, e neanche tutto. Un narratore protagonista, tale Franz Ritter, viennese, esperto di musica classica, in una notte d’insonnia ci racconta i suoi viaggi (Istanbul, Aleppo, Palmira, Damasco, Teheran), mischiando liberamente ricordi di luoghi e di persone, frammenti di altre vite, citazioni letterarie e musicali, e istantanee di una tale Sarah, “orientalista” di professione. Si proietta, così, sulle pagine una sorta di collage policromo, o se vogliamo un “documentario” che sta a metà tra la confessione e la rielaborazione colta, un museo privato di oggetti pubblici, che provengono, più o meno direttamente, da quel capitolo della storia culturale che chiamiamo orientalismo. Non mancano doverose citazioni di un teorico come Edward Said o anche di Bhabha e Spivak, numi degli studi post-colonial. Ma troviamo anche il nostro Claudio Magris, lodato e criticato per Danubio; e gli autori più vari, da Balzac a Thomas Mann, da Goethe a Agatha Christie, da Baudelaire a Kafka, da Flaubert a T. E. Lawrence. Non mancano di apparire, ovviamente, Napoleone, Freud, Jung, e archeologi, viaggiatori, avventurieri, e l’oppio, e tutto il corredo di emblemi che ha fatto del cosiddetto “orient” (pronunciato alla francese) un mercatino di citazioni. Bussola, infatti, ci lascia – suppongo volutamente – con il dubbio se tutto quello che mette in vetrina sia davvero l’Oriente o solo un’immagine dell’Oriente, solo un delirio appunto notturno, da contestare ma non da dimenticare: l’“altérité”, come Franz ama dire. Neppure la libertà del monologo, infatti, riesce mai a svicolare dal cliché, dalla trovata facile, dall’omaggio al già sentito. Responsabilità dell’autore o del narratore? Colpa dei nostri tempi, dove anche chi “fa ricerca” non sa più ordinare le scoperte o classificare la rilevanza delle fonti?

Il tema che Enard si è assegnato è importante, perfino urgente. E proprio per questo ci si sarebbe aspettati una trattazione meno frivola e compiaciuta. Qui ci volevano altri discorsi, altro rigore. Ci voleva una voce saggia, un vero e proprio ermeneuta, immaginario quanto si voglia, ma capace di criticare, di distinguere, di riconoscere; e non un solipsista, un narcisista che affastella o, peggio ancora, butta nel frullatore qualunque cosa passi la dispensa, e indica malattia e follia in ogni angolo, e si sente vinto da non si sa bene quali patemi. Tutto il decostruzionismo cui siamo abituati da decenni di sbandamento del gusto non basta a giustificare né il tono né la narrazione di questo romanzo, né la psicologia gigionesca del protagonista. Anzi: il problema è proprio questo. Bussola, di fatto, non è un romanzo. Questo ce lo dice il sottotitolo dell’edizione francese, che quella italiana ha l’eleganza di rimuovere. E fallendo come romanzo, fallisce come trattazione del tema prescelto.

Il genere romanzesco, lo sappiamo, ha tanti modi d’espressione: ma una forma l’ha, ed è l’arte di mostrare il costruirsi di una coscienza in rapporto a una società, fosse la società ridotta anche a un unico individuo. Ecco, per esempio, perché l’amore si adatta alla costruzione romanzesca nel modo più ideale e più elementare: perché nell’amore ci si trasforma rispetto a qualcun altro; perché l’io si scopre “determinato” e osserva chi lo determina. Enard, a proposito di amore, ha creato Sarah, della quale si suppone che Franz Ritter sia irrimediabilmente innamorato. Ma Sarah non è nessuno, nel senso più letterale del termine. È piuttosto una trovata – facilona – per dare al narratore una voce antagonista; non un’amante e attraverso lei una coscienza di sé. Sarah, fossimo anche così ciechi da crederla un personaggio, non è più che un fantoccio di frasi fatte: come donna e come studiosa e come memoria soggettiva.

Ma dalla faciloneria è dettata un po’ tutta l’etica del libro. Perché Franz deve essere viennese? E perché farlo esperto di musica, quando quel che preme è ben altro? Un romanzo è anche questo: sistema di motivi metaforici che, per quanto allotri, alla fine si accordano e sostengono a vicenda. Qui non c’è accordo, non c’è armonia, non ci sono rapporti necessari. C’è accumulo, aggregazione; e le cose stanno insieme non per una naturale fisica della combinazione, ma per effetto di una collosa retorica dell’associazionismo e dell’analogismo, a spese di qualunque diligenza concettuale. Dici sudore e ci appicchi il sangue della selvaggina e da questa salti agli sputacchi tisici di Kafka... E così via, come viene viene, n’importe quoi. Anche l’erudizione, per la quale Enard oggi viene tanto elogiato, è cosa non impeccabile; al meglio, sfoggio di notizie da buon liceo di qualche anno fa. Non poche le inesattezze, pervasiva la superficialità... Un esempio: Sarah a un certo punto afferma – in un ricordo di Franz – che senz’altro la parola nostalgia devono averla inventata certi marinai portoghesi del XVI secolo. Franz sembra approvare, e Enard non sembra disapprovare. Ebbene: “nostalgia”, come è risaputo, è invenzione di Johannes Hofer, che nel 1688 pubblicò a Basilea uno studio su una speciale forma di sofferenza riscontrata in certi mercenari svizzeri. A ogni modo la nostalgia non è una parola e basta; non ci vuole un bas-bleu come Sarah per storicizzarla. I greci già la conoscevano e la chiamavano pothos, e i romani desiderium...

Temo che Enard abbia tra i suoi dèi il davvero superno Sebald. A Sebald dobbiamo il modello di una scrittura che si confronta con gli ambiti più riposti dell’esperienza, compreso l’oblio, che scende nella micro-storia così come nell’architettura o nella biologia o nelle peggiori catastrofi dello spirito. Da Sebald l’autore di Bussola certamente ha preso la varietà tematica e perfino l’inclusione di un apparato iconografico. Ma Sebald non fa errori, neppure quando più sembra allontanarsi dal tema. In Sebald ogni digressione è al servizio di una logica metaforizzante che tutto compatta in una costruzione di aristotelica esattezza: di tragica (ancora in senso aristotelico) perfezione. In Enard mancano la tragedia, cioè il mythos che unifica in uno svolgimento fatale, e manca soprattutto la metafora, senza la quale nessun romanzo che tale si proclami potrà mai avere la pretesa di affermare anche solo mezza verità.

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