Narratore, poeta, errabondo scrittore di viaggio, Cees Nooteboom appare oggi in italiano con un libro poetico che comprende un’ampia scelta dalla raccolta più recente, che dà il titolo all’intero volume, e una più severa selezione di poesie tratte dai volumi via via precedenti. Chi ama la sua prosa, dunque, ha la possibilità di coglierne la radice quadrata, poiché la poesia è un acceleratore di verità. Ci troviamo di fronte a meditazioni sul tempo, a specchi inquisitori, all’ossessione dello sguardo che non cattura e che allora si prolunga in una “litania dell’occhio”. Nooteboom sembra rassegnarsi alla propria saggezza: «Guarda il pendio, gli alberi sul pendio. / […] / Vedere tutto, non capire niente: il motto del pittore. / Alberi incompresi, pendio frainteso». La materia impressiona i suoi versi, ma li lascia allo stato di fantasma, come fossero una lastra radiografica di ciò che vorremmo vedere vivo. È l’effetto paradosso della “luce ovunque”: lo sguardo non può posarsi su qualcosa senza tradire il grande resto, che s’irraggia («quanti raggi ha la ruota / di un solo / giorno?») nello spazio-tempo, propone fughe prospettiche, trappole cronologiche. Del resto, il già celebre Canto dell’essere e dell’apparire terminava con un richiamo alla teoria della relatività. E le poesie sono qui disposte, per dir così, in senso antiorario, come in una confutazione del tempo, o per un suo diverso utilizzo.
Così il poetare dello scrittore olandese consiste in una calma tessitura dell’arbitrio: è sentenzioso perché la letteratura deve firmare con le sue limpide formule i fatti più sfuggenti e sconcertanti, farli passare per eterni, sovrapponibili. Tutti sappiamo che un cavallo, da solo, non avrebbe senso: ne ha solo quando ne appare un secondo. Tuttavia, questa somiglianza del mondo con sé stesso non dipana il mistero. In un dialogo ideale con Wittgenstein Nooteboom allude al filosofo austriaco come a un «cavaliere errante / caduto in una trappola disegnata da lui stesso». E si comprende che in tanto prestigio della parola autorevole (i riferimenti a Borges appaiono inevitabili; ma ci sono anche Orazio e Virgilio, un ciclo di componimenti dedicato al De rerum natura e un catalogo di evocazioni che comprende Esiodo, il poeta dell’VIII secolo Meng Jiao, Shelley, Cartesio, Ungaretti, Wallace Stevens, Omero…), del sapere depositato sul mondo e chiuso nell’universo postmoderno del rimando continuo, l’autore celebri la poesia come sperdimento e vertigine.
Essa è celebrata infatti come un «inconfutabile palazzo di parole», o «ripetizione / di precedenti mitologie». Metafore di nobiltà non freschissima («nel lago dei tuoi occhi», «onde di parole») o viceversa figlie di moderate euforie moderniste («tua moglie brasata», «le tue tracce di miele sul registro catastale»), percorrono poesie che s’interrogano sulla percezione e l’identità, e in che modo esse vengano tradite o assicurate dalla scrittura. Siamo chiamati dentro un elegante gioco con l’enigma, coi dilemmi quotidiani del silenzio, della notte e dell’assenza. Di conseguenza, l’esotismo del grande viaggiatore, che attraversa decine di luoghi e migliaia di pagine, è un’illusione ottica: su ogni cosa si distende la stessa luce perplessa, sognata e fluttuante. Nooteboom canta l’essere e l’apparire, ma ha troppo poca fiducia nel loro rapporto.
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