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Il fisiologo Flourens preferito a Victor Hugo

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Il fisiologo Flourens preferito a Victor Hugo

Come non rammaricarsi del fatto che, al momento dell’elezione del successore di Michaud alla ventinovesima poltrona (dell’Académie française, ndr), nel febbraio 1840, si sia preferito Pierre Flourens a Victor Hugo, già celebre, peraltro, e candidato per la terza volta? Ai nostri giorni, il rivale di quel grand’uomo è caduto nell’oblio; ma sarebbe improprio concluderne che gli accademici dell’epoca si fossero screditati scegliendo lui.

Il fallimento dello scrittore si spiega col fatto che i suoi avversari erano stati abili a non affrontarlo sul terreno del valore letterario e ad opporgli invece uno scienziato, un eminente professore di fisiologia, le cui conferenze attiravano un pubblico numeroso, e che inoltre era il segretario perpetuo dell’Accademia delle scienze. Lo scrutinio fu estremamente riservato. Quel giorno c’erano 31 votanti e la maggioranza assoluta era di 16 voti. Hugo ne ottenne 14 al primo turno, 15 al secondo e 14 al terzo. Flourens ne ebbe 14, 14, e poi 15. E fu solo al quarto turno che vinse, con 17 voti contro 12.

Per il poeta la cosa era solo rinviata: sarebbe stato eletto dieci mesi dopo. Ma, sul momento, i suoi estimatori erano furiosi. «Non è all’Académie française che si estraggono le radici cubiche e Richelieu non ha pensato per niente, nella sua creazione, agli alambicchi e a tutti gli apparecchi di laboratorio!» scriveva irritato un giornale dell’epoca. Altri articoli erano meno diretti, per quanto più severi, deplorando che un fisiologo di fama si fosse «prestato a un intrigo per essere eletto da una coalizione di letterati più o meno estranei alla scienza, da facitori di versi di commedia e realisti malmostosi».

Senza dubbio l’elezione del professor Flourens era il risultato di una pianificazione. Ma la presenza di uno scienziato all’Académie française non aveva niente di incongruo, di aberrante o di scandaloso, cosa che il nuovo eletto cercò di dimostrare, con passione, fin dalle prime parole del suo discorso di accoglienza.

«Signori, l’unità delle lettere e delle scienze inizia, nella nostra patria, con la lingua stessa. Cartesio crea contemporaneamente, nel XVII secolo, una geometria, una filosofia, una lingua nuova. Nel XVIII secolo, Fontenelle fa parlare alla scienza la lingua comune; Buffon le fa parlare quella dell’eloquenza; la lingua di Voltaire fa volare la fama di Newton [...]. Uno spirito filosofico nuovo nasce dalle scienze. Questo spirito, superiore alle scienze stesse, non è forse, Signori, uno dei caratteri più evidenti dei nostri tempi moderni? Non ha avuto influenza su tutto? Sulla filosofia? Lo abbiamo già visto: è un matematico ad aver fondato la filosofia moderna. Sulla lingua? È quello stesso matematico ad aver scritto il Discorso sul metodo, ovvero la prima opera in cui la nostra lingua ha preso la sua nuova forma. E colui che ha portato questa nuova forma a un grado davvero stupefacente di elevazione e perfezione è, ancora una volta, un matematico! L’autore delle Lettere provinciali, Pascal! Sulla storia infine? Uno scrittore filosofo del secolo scorso, David Hume, voleva che fosse sottoposta al metodo delle scienze. Ed è proprio perché essa vi si è sottomessa, proprio perché essa è così dipendente dai fatti, che la storia ha preso ai nostri giorni il volo – cosa che non ha bisogno di prove, certamente, ma che troverebbe una prova evidente nell’opera più importante del celebre accademico di cui devo parlare oggi».

Quest’ultimo riferimento dell’oratore era, ovviamente, una maniera comoda per arrivare a ciò che costituisce, secondo la tradizione, il piatto forte di ogni discorso di accoglienza: l’elogio del predecessore. Un passaggio del tutto pertinente, del resto, visto che il ricorso a una documentazione abbondante e meticolosa, che è la caratteristica da tutti riconosciuta alla Storia delle crociate di Michaud, rappresenta effettivamente un bell’esempio dell’introduzione del metodo scientifico nello studio della storia.

Furono, tuttavia, le prime frasi del discorso quelle che restarono nella memoria del pubblico raccolto sotto la Cupola quel giorno, giovedì 3 dicembre 1840. Ci si attendeva che in qualche modo l’accademico rispondesse alla protesta generale e insultante che aveva accolto la sua elezione di fronte a Victor Hugo, ma Flourens non si era accontentato di giustificare la propria presenza all’Académie française.

In pochi brevi paragrafi, aveva saputo render conto di un autentico fenomeno culturale. Elevandosi al di sopra delle querelles fra “classici” e “romantici”, fra repubblicani, bonapartisti, orléanisti o legittimisti, e al di sopra degli inevitabili conflitti personali, aveva ricordato ai suoi confratelli che stava nascendo un mondo nuovo, in cui la scienza, la sua anima, i suoi metodi e le sue applicazioni avrebbero giocato un ruolo determinante. E non solo nei campi del sapere o dell’insegnamento; in Francia, come in Inghilterra, come in altri paesi, la diffusione delle macchine avrebbe prodotto nuove relazioni fra gli uomini, nuove dottrine politiche e filosofiche, trasformando contemporaneamente l’esistenza materiale e la vita intellettuale dell’intera popolazione.

La casualità delle elezioni accademiche avrebbe fatto della ventinovesima poltrona, nel XIX e poi nel XX secolo, un testimone privilegiato di questa metamorfosi, grazie a una successione di personalità stimate a livello mondiale nelle scienze della natura e nelle scienze umane. Ai nostri occhi, la stella di Pierre Flourens non brilla certamente della stessa luce di quella di Claude Bernard, di Ernest Renan o di Claude Lévi-Strauss; ma il suo contributo non è in alcun modo trascurabile. Non fosse che per il suo apporto all’elaborazione di uno degli strumenti più utili della medicina moderna: l’anestesia. Questa è, ai nostri giorni, tanto diffusa e abituale, che ci è difficile immaginare dei tempi catastrofici in cui il paziente restava sveglio e urlava di dolore mentre il chirurgo gli asportava la cistifellea o gli amputava una gamba. Flourens fu uno dei primissimi ricercatori a studiare le proprietà del cloroformio e a farlo conoscere alla comunità medica.

L’invenzione dell’anestesia non può essere attribuita a nessuno in particolare: come altre tecniche simili, è stata il prodotto di una lunga evoluzione insieme concettuale e sperimentale. Ciò tuttavia non deve farci trascurare coloro che, a ogni tappa di questo cammino, hanno permesso al sapere e alla pratica di progredire di qualche passo. Nelle scienze e nelle tecniche, un ricercatore è un nobile ingranaggio: anche se è più che legittimo rendere omaggio a uno scienziato in particolare, al suo lavoro, alle sue intuizioni o al suo genio, bisogna ricordarsi che ogni scoperta è sempre il frutto di una lunga successione di minuscoli passi avanti, e che se delle nuove idee vengono a invalidare con regolarità le concezioni precedenti, esse stesse sono destinate a essere superate da quelle che verranno dopo.

Non è forse questa, del resto, una delle differenze più importanti fra l’universo dell’arte e quello delle scienze? Il primo cambia, si trasforma, ma non si può parlare di progresso. Una scultura realizzata a Los Angeles nel XXI secolo non rende obsoleta una scultura realizzata ad Atene duemilacinquecento anni prima; le composizioni pittoriche di Picasso non rendono caduche le pitture murali di Lascaux; e le poesie di oggi non rendono antiquati i sonetti di Shakespeare. All’inverso, le tecniche impiegate da chi praticava la medicina nel XIX secolo sono per i medici di oggi proprio così: “obsolete”, “caduche” e “antiquate”. La scienza è destinata, dal suo modo di evolvere, a essere collettiva e ampiamente anonima. Cosa che non toglie nulla al genio dei suoi singoli protagonisti, né al valore del contributo di ciascuno al progresso realizzato nella sua epoca.

Traduzione di Anna Maria Lorusso

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