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La preda perfetta di Dio

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Cinema

La preda perfetta di Dio

Sembra che Gene Wilder non si ritenesse simpatico. Al massimo, gli è capitato di dire, «avrò fatto ridere mia moglie un paio di volte, e neppure tanto». Una strana convinzione. O forse no. Forse il grande Gene Wilder non aveva torto.

Per saperne di più, domandiamo a Mel Brooks. «È la preda perfetta di Dio, la vittima che c’è in tutti noi», disse una volta di lui l’autore di «Frankenstein Junior» (1974). E quando mai una preda e una vittima si son trovate simpatiche da sé? Al massimo, come insegna la storia della risata teatrale e cinematografica, hanno escogitato qualche via di fuga dalla loro scomoda posizione inducendo i potenziali persecutori (gli spettatori) a mostrare i denti sganasciandosi, invece di usarli per sbranarli.

Così ci pare fosse il grande Wilder, sempre in bilico tra due opposti: la paura di chi si senta braccato e l’insolenza di chi osi capovolgere la ferocia altrui in benevolenza e applausi. Gliela si leggeva negli occhi, questa duplicità, questa ambiguità geniale. Erano insieme dimessi e inventivi quelli del contabile Leo Bloom, teorico del fallimento teatrale di «Per favore non toccate le vecchiette» (1971). Indifesi e però tenaci fino all’eroismo erano quelli del piccolo rabbino Avram Belinski in «Scusi dov’è il West?» (1979). Timidi e lubrichi quelli di Teddy Pierce davanti allo splendore di Kelly LeBrock in «La signora in rosso» (1984). Poi, ovviamente, ci sono gli occhi indimenticabili del Dr. “Frankenstin”: disorientati e saputi, ingenui e vissuti, ebeti e geniali…

Aveva ragione, il grande Gene Wilder. Non era simpatico. Era molto di più. Era (ed è) la preda perfetta di dio. In altre parole, un comico vero.

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