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Nel crogiuolo che forgiò il Cortegiano

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Nel crogiuolo che forgiò il Cortegiano

Ritratto di Baldassar Castiglione | Dipinto a olio su tela di Raffaello (1514-1515, Museo del Louvre, sede di Lens)
Ritratto di Baldassar Castiglione | Dipinto a olio su tela di Raffaello (1514-1515, Museo del Louvre, sede di Lens)

Quando nel 1995 le lezioni di letteratura inglese e francese che Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva steso per Gioacchino Lanza e Francesco Orlando vennero pubblicate nella loro integralità, i lettori poterono rendersi conto che Il Gattopardo non era un miracolo lungamente covato nel silenzio, ma il frutto di una lunga militanza di lettore. Qualcosa di simile viene da pensare oggi davanti alla monumentale edizione del carteggio di Baldassar Castiglione, a una quarantina d’anni dalla pubblicazione del primo volume, interrotta dalla morte del curatore Guido La Rocca. Grazie a una squadra formata da Angelo Stella, Umberto Morando, Roberto Vetrugno e Luca Bianco, oggi possiamo immergerci nel crogiuolo intellettuale e biografico da cui è emerso il Cortegiano (anch’esso una sorta di “figlio unico” tardivo). E si tratta di un grande avvenimento: che (assieme all’edizione dell’opera maggiore, curata da Amedeo Quondam per Bulzoni) fa a tutti gli effetti di questo 2016 “l’anno di Castiglione”.

Dei due poli attorno ai quali si organizza la raccolta – le lettere famigliari e quelle diplomatiche – è il secondo che conta. Nel corso di una trentina d’anni vediamo infatti un piccolo nobile mantovano diventare uno dei più apprezzati diplomatici e consiglieri politici del suo tempo, al centro di una vasta rete internazionale di relazioni. Papi, imperatori, re: tutti apprezzano i suoi servigi. E in effetti, a leggerlo bene, il carteggio ci mostra un Castiglione non meno politicamente avveduto di Machiavelli e Guicciardini.

Il confronto è utile anche perché permette di mettere in luce le peculiarità di questo epistolario. Rispetto ai fiorentini, le missive diplomatiche di Castiglione indulgono meno nel gusto del racconto e del profilo a tutto tondo (anche se non mancano eccezioni notevoli, come la pagina sui festeggiamenti romani per l’elezione di Carlo V a imperatore o quelle sulla messa in scena della Calandria di Bibbiena). E lo stesso si può dire della riluttanza di Castiglione a “oggettivare” le proprie impressioni di ambasciatore in «regule generali» pronte e passare in proverbio, come avviene soprattutto nel caso di Machiavelli (un atteggiamento che spesso diede da mormorare a Firenze). Non tutta la distanza si spiega in termini di tradizioni culturali (con i toscani più pronti a trasformare le proprie missive in embrioni di novelle): la maggiore austerità di Castiglione risponde infatti a una precisa strategia, volta a guadagnarsi la fiducia dei suoi protettori non tanto attraverso l’acutezza dei giudizi quanto con la chiarezza dell’informazione. Lo vediamo particolarmente bene nel caso della delicatissima missione per papa Clemente VII alla corte di Carlo V, dove dominano i dialoghi (diretti e indiretti), e il lettore moderno è messo nella condizione di ascoltare direttamente l’imperatore, con il suo perfetto italiano intercalato da qualche termine spagnolo a dare colore nei punti più appassionati del discorso (mentira per menzogna). E si tratta spesso di frasi memorabili, come quando, all’indomani della disfatta di Francesco I a Pavia, Carlo V riassume in poche parole il segreto disegno degli italiani: «dicono che, poi che se è cazzato el re di Franza, che cazzaranno me ancora, e così restaranno liberi».

Come per Lampedusa, la pubblicazione dei testi dell’officina influisce necessariamente sul modo in cui siamo portati a interpretare anche l’opera maggiore. Dalle oltre 2200 pagine di questi carteggi esce fuori un Castiglione calato nelle lotte del suo tempo con una passione e una dedizione non comuni, che conferma l’alta vocazione politica del suo trattato. Uno dei modi di leggere il Cortegiano (e non il più peregrino) è di considerarlo infatti una delle possibili risposte alla crisi degli antichi Stati italiani innescata dalla discesa dei francesi nel 1494. Le soluzioni erano state le più diverse. Alcuni avevano tirato in ballo la punizione divina (Girolamo Savonarola), altri una sfortunata congiunzione astrale (Giovan Francesco Pico della Mirandola), altri ancora gli errori dei principi. Quest’ultima spiegazione, la più diffusa, poteva però essere declinata in molti modi diversi. Per Machiavelli, all’origine della crisi vi era la corruzione dei principi a opera degli umanisti, che li avevano distolti dall’arte della guerra persuadendoli che per governare bastasse esprimersi con le giuste clausole latine; per Agostino Nifo la colpa era dei consiglieri e in particolare dei giuristi, che offrendo ai principi scuse e argomenti per commettere qualsiasi azione in deroga al diritto e alla morale li avevano spinti a tramutarsi in tiranni (proprio Machiavelli sarebbe, con il Principe, uno dei maggiori responsabili di questo atteggiamento).

Il Cortegiano nasce da una riflessione ancora diversa. Se gli umanisti quattrocenteschi avevano assicurato che la politica poteva essere “addomesticata” attraverso un’attenta pedagogia delle élites, Castiglione guarda anche lui con scetticismo alle illusioni del secolo precedente. Semplicemente, l’institutio negli anni della giovinezza non basta. I principi del Cortegiano sembrano infatti condannati a una condizione di perenne “minorità”, che, per governare bene, li obbliga ad affidarsi al soccorso di uomini saggi (l’opposto di quanto sostiene Machiavelli, con la sua ossessione per l’autonomia del principe, anche dai consiglieri). È qui, in questa “pedagogia per adulti”, che i cortigiani diventano indispensabili. Ma, per poter giovare al proprio signore, i cortigiani dovranno conquistare prima il suo favore, anche eccellendo in attività apparentemente trascurabili quali il ballo, l’equitazione o i giochi. Lucrezianamente, l’ideale compagno dei principi è insomma un maestro di virtù che cosparge di zucchero i bordi del bicchiere con la medicina amara e che, per questo, può pronunciare anche le verità più sgradevoli.

Che i rapporti con i potenti non siano mai facili Castiglione lo ha sempre saputo. Ce lo insegna la sua biografia: dal decennale bando dalla natìa Mantova per essere passato al servizio del duca d’Urbino alle tensioni con Vittoria Colonna per la leggerezza con cui la marchesa lasciava che si traessero copie del Cortegiano ancora inedito, sino alla vicenda esemplare della nunziatura di Spagna.

Nel 1524, in un momento di rinnovate ostilità tra francesi e spagnoli, Castiglione viene chiamato da Clemente VII a rappresentarlo presso Carlo V. Durante il viaggio per raggiungere Madrid, la situazione precipita, perché il pontefice cambia improvvisamente campo nel tentativo controbilanciare l’eccessivo potere degli imperiali, mettendo Castiglione in una posizione difficilissima, degna di «compassione», come lui stesso scrive. Il nunzio è ricevuto con sospetto; i collegamenti con l’Italia sono difficili («queste mie lettere sono quasi ephemeride»); la salute lo abbandona (anche per «li caldi excessivi»). Castiglione non rinuncia però a ricomporre i cocci, anche sfruttando un rapporto subito eccellente con Carlo V. Al momento opportuno, questa relazione preferenziale potrebbe risultare decisiva per superare le diffidenze, ma invece Castiglione viene sospettato a Roma di essere troppo favorevole agli spagnoli e di farsi guidare dalla «passione», al limite dell’“intelligenza col nemico” (la stessa cosa era successa a Machiavelli durante la sua missione presso Cesare Borgia). Così Castiglione viene ripetutamente lasciato senza istruzioni per diversi mesi, mentre papa e imperatore si incamminano verso la guerra aperta, secondo la strategia per liberare l’Italia promossa da Guicciardini. Nessuno, soprattutto, ascolta i reiterati inviti del nunzio alla prudenza.

Quando la lega promossa dal pontefice contro Carlo V si conclude drammaticamente nel sacco di Roma (1527), in curia scatta la caccia ai colpevoli. Nemmeno Castiglione si salva, accusato di non aver informato a dovere il papa di quanto avveniva a Madrid. È il momento più drammatico. Ma il mite (e tenace) Castiglione non esita a replicare a Clemente VII, ricorrendo a tutta la propria maestria per indicare chiaramente di chi è la colpa senza suonare offensivo: «Se da questo è successo male, pesami in estremo, e vorrei non essere stato creduto in questo, come non sono stato creduto in qualch’altra cosa, o essere stato creduto nel resto, come sono stato in questo».

Il lieto fine è solo parziale. Rappacificatisi il papa e l’imperatore, Castiglione è premiato con un ricco vescovado in Spagna, ma si riammala proprio durante la cerimonia di investitura e muore improvvisamente. Se fosse vissuto più a lungo, sarebbe stato uno dei trionfatori all’incoronazione bolognese di Carlo V per mano dello stesso pontefice (1530). Rimaneva però il Cortegiano: con le sue preziose indicazioni su come giovare ai grandi della terra persino contro il loro stesso volere, ma soprattutto nell’interesse dei loro sudditi.

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