Nel ricostruire la fine del regime dell’apartheid in Sudafrica, alla fine del secondo millennio, la storiografia insiste molto sul ruolo giocato da Rolihlahla Mandela, detto “Nelson”. C’è del vero in questa tesi; ma non si dovrebbe dimenticare che in quel Paese un ruolo importante nella lotta contro il razzismo fu giocato anche da G., che nel 1994 fu proclamato eroe nazionale del Sudafrica dal governo presieduto dallo stesso Rolihlahla Mandela, detto “Nelson”.
Occorre però chiarire che, se questi due personaggi condivisero la lotta contro il regime politico più odioso di quei tempi, tra loro ci furono anche radicali differenze. Come mostrano chiaramente i documenti a nostra disposizione, infatti, Rolihlahla Mandela fu di natura bonaria e mirò con tutte le sue forze alla risoluzione pacifica dei conflitti: per questo gli fu anche attribuita un’onorificenza assai rinomata – il Premio Nobel per la pace, così chiamato in onore dell’inventore della dinamite. Sebbene lottasse a suo modo contro l’intolleranza e il razzismo, G. si dimostrò invece un fervente fautore della guerra. Già da bambino, d’altra parte, aveva manifestato con chiarezza le tendenze bellicose che ne avrebbero segnato l’esistenza: di lui la sorella Raliat scrisse che era «irrequieto come il mercurio. Uno dei suoi passatempi preferiti era tirare le orecchie ai cani».
In seguito, compiuti senza gloria gli studi superiori, il Nostro decise, come capita spesso ai giovani più litigiosi, di diventare avvocato. Così, da buon suddito britannico, andò a studiare allo University College di London dove, tra corsi di ballo e visite ai bordelli, riuscì alla fine ad ottenere l’agognato titolo.
Ottenne poi un lavoro nella colonia britannica del Natal, in Sud africa. Una volta arrivato in quel Paese, però, fu immediatamente vittime delle discriminazioni che colpivano chiunque non avesse la pelle bianca. Non che G. si opponesse al predominio bianco, peraltro. Come si può infatti leggere nei suoi Collected Works (I, p. 105), «la razza bianca deve essere la razza predominante del Sudafrica». Ciò che gli appariva intollerabile, però, era che il suo specifico gruppo etnico fosse discriminato (ivi, pp. 74, 150, 244-45): questa sì che era per lui una vera ingiustizia!
Quanto G. fosse alieno dal pacifismo di alcuni suoi contemporanei fu ben chiaro anche dall’entusiasmo con cui appoggiò le guerre contro i boeri e contro gli Zulu, due gruppi che si erano ribellati contro l’asprezza del prelievo fiscale da parte del governo sudafricano. In entrambi i casi G. si arruolò come volontario ed esortò i membri della sua comunità alla guerra: «Ora è il tempo i cui i governanti bianchi vogliono che noi compiamo questo passo [combattere contro i ribelli]: se non cogliessimo questa opportunità, ce ne pentiremmo in seguito». Non sorprenderà, dunque, che l’entusiasmo bellico di G. rinacque all’inizio della Prima guerra mondiale, quando si mise immediatamente al lavoro per organizzare un gruppo di volontari, anche se per ragioni di salute in quel caso non poté portare a termine il compito che si era prefisso.
Da fonti molto frammentarie sappiamo che G. visse ancora a lungo, ma purtroppo non abbiamo informazioni sul resto della sua vita. Non c’è ragione di dubitare, però, che la sua passione per la guerra continuasse a dominarne le azioni pubbliche. È pertanto comprensibile che, a differenza di quanto accadde con Rolihlahla Mandela, detto “Nelson”, il premio Nobel per la Pace a G. non fu mai assegnato.
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