Cultura

Stranieri nel mare «nostrum»

  • Abbonati
  • Accedi
Scienza e Filosofia

Stranieri nel mare «nostrum»

«Ciò che sta in mezzo alle terre» – questa la definizione etimologica originale del Mediterraneo. Ed emerge così subito un paradosso, già “scritto” nella radice linguistica. Il Mediterraneo è quel mare che si definisce in rapporto alla terra, la cui peculiare identità marina è dunque legata ai modi della sua relazione con le terre, al suo stare per l’appunto in mezzo alle terre. Quel medius va tuttavia specificato. La sua funzione va chiarita. Si può «stare nel mezzo» per dividere, per separare, per segnare un limes. O, al contrario, per agire come con-fine, dove ciò che più conta non è il finis, ma il cum, dove allora il mare compare come luogo di contatto e relazione, anziché come barriera invalicabile. Dal punto di vista storico e culturale, soprattutto alle origini della tradizione occidentale, il Mediterraneo è stato soprattutto il tramite di un dialogo incessante di lingue e civiltà, di costumi e stili di vita.

L’Odissea è il diario di bordo che registra la molteplicità degli approdi a cui può condurre la navigazione in quel mare che sta in mezzo alle terre. Lotofagi e ciclopi, sirene e maghe astute, popolazioni ostili e ospiti generosi, offrono un’esemplificazione paradigmatica di una identità costruita sulle differenze, di una unità che presuppone ed esalta la molteplicità. E non è dunque un caso se la figura delineata da Omero come esploratore della ricca varietà di forme connesse a questo mare possa essere poi indicata da Dante, a distanza di quasi due millenni, come eroe del sapere, come indomabile ricercatore di virtù e conoscenza.

Accomunando sotto il titolo Mediterraneo le tre opere che hanno costituito il cartellone dell’Arena Sferisterio di Macerata (Otello, Il Trovatore, Norma), il direttore artistico Francesco Micheli ha evidentemente inteso richiamarsi ad un’accezione culturale, anziché meramente geografica, del mare che i Romani chiamavano nostrum. È vero, infatti, che sul Mediterraneo si affacciano i tre paesi – Italia, Francia e Spagna – nei quali sono ambientate le vicende che sono al centro dei tre melodrammi. Ma la contiguità spaziale non motiverebbe a sufficienza la scelta di un titolo che evoca invece, pur se indirettamente, una problematica che è di palese attualità, ma è soprattutto di grande interesse sul piano strettamente filosofico.

Non solo i luoghi, ma le storie narrate, i personaggi descritti, le passioni e gli interrogativi, i conflitti e gli amori, che si ritrovano nei melodrammi maceratesi stanno da questa parte del mare, si riferiscono più o meno esplicitamente ad una tradizione che si è costituita con la confluenza tra il filone greco-latino e la componente giudaico-cristiana. Ma proprio per questo carattere, per i molteplici vincoli che saldano in un’unità culturale i tre scenari delle opere, essi pongono il problema del rapporto con l’altra sponda del mare, con la storia, i valori, le tradizioni che letteralmente ci fronteggiano, sfidano la solo apparente autosufficienza della nostra civiltà.

Mediterraneo vuol dire allora, in questa prospettiva, porre la questione del rapporto con l’altro, misurarsi con una figura controversa e quasi indecifrabile, temuta e talora perfino odiata, quale è la figura dello straniero. Emerge, in questo passaggio, tutta l’imbarazzante miseria di un dibattito politico-culturale inchiodato sulla sterile contrapposizione di due formule, entrambi unilaterali e infine prive di contenuto. Fra il respingimento e l’accoglienza, fra l’odiosa immagine di un rifiuto violento e la patetica impotenza di una pur encomiabile opzione di principio, si apre lo scenario di una cultura – quella di questa sponda – che ha sostanzialmente rimosso una tematica delicata e complessa, quale è quella dell’alterità, limitandosi a balbettare stereotipi evanescenti e inservibili.

L’uso dell’espressione «straniero», enfatizzando la radice latina extra-, implica una caratterizzazione esclusivamente negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). Il primo effetto semantico di tale rappresentazione linguistica è l’oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l’umanità che “viene da fuori”, o che è, appunto, dall’ “altra parte”. L’atteggiamento largamente dominante tende a cancellare il dato fra tutti più importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente – è l’ambivalenza. È inevitabile vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile avvertire, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno.. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l’arrivo, a spalancargli le porte della mia casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con la massima fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se si trattasse di una benedizione. Sempre minaccia e dono – non l’una cosa o l’altra. Anzi: l’una cosa proprio in quanto è l’altra.

Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell’unicità. Più ancora: di fronte a lui, mostrano tutta la loro radicale insufficienza le categorie logiche con le quali siamo abituati a «mettere in ordine» il mondo. La rassicurante e familiare logica dell’ aut-aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et-et.

La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell’apparato concettuale che è alla base della nostra quotidianità. Con la sua sola presenza mette in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita “ordinaria”, la logica e il linguaggio con i quali essa è organizzata. E tuttavia la consapevolezza del carattere maxime pericolosum dell’incontro con lui non cancella l’inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata sono immanenti una promessa e una sfida, alle quali non posso sottrarmi.

© Riproduzione riservata