Nel momento in cui, grazie al passaparola dei lettori e in particolare delle lettrici statunitensi l’opera e il nome di Elena Ferrante sono diventati notissimi urbi et orbi e le vendite della traduzione inglese dei quattro volumi di L’amica geniale gareggiano con quelle dei facitori e facitrici di best-seller elaborati al computer, tutto quello che è possibile sapere su Elena Ferrante è contenuto in La frantumaglia, ampio volume di quasi quattrocento pagine che raccoglie lettere e interviste, divise in tre capitoli: Carte. 1991-2003; Tessere. 2003-2007; Lettere. 2011-2016. Il secondo e il terzo sono successivi alla prima edizione del libro, che è del 2003, 163 pagine sulle 376 complessive.
La curiosità, un po’ sciocca e un po’ malsana anche se spiegabile, che circonda la scrittrice, rigorosamente appartata e – volto e vita – di ignota identità resterà soddisfatta solo in parte per quanto riguarda i pettegoli, e sono tanti!, ma dirà tutto quello che è possibile e, direi, legittimo sapere su una scrittrice o uno scrittore, per gli amanti della buona scrittura. C’è tutto quel che è giusto sapere di Elena Ferrante in questo libro, meno la sua fotografia, il suo vero nome e la sua, diciamo così, collocazione fisica in una famiglia, in un lavoro, in una città, in un ambiente. Che però si suppone in parte coerente con quello della protagonista dell’Amica geniale, ma solo in parte, per la precisione e per la sapienza con cui vi vengono descritti Napoli, la sua popolazione di piccolissima borghesia quasi “eduardiana”, e un tempo che va dagli anni cinquanta per giungere vicino a noi, segnalato più dalle mutazioni antropologiche del contesto che da date storicamente certe, da avvenimenti forti riguardanti tutta la comunità, locale o nazionale. Napoletana lo è certamente (basterebbe per convincersene la descrizione del quartiere del Vasto nel primo volume dell’Amica geniale), e napoletana che si è allontanata da Napoli fisicamente ma non culturalmente, giovane che non si è affatto sottratta ai movimenti del ’68 e in particolare del femminismo, scrittrice che ha avuto come riferimenti e forse modelli due dei nomi più grandi della nostra letteratura novecentesca, la Morante e la Ortese, e che forse ha conosciuto direttamente una sorella maggiore come la Ramondino, Elena Ferrante si è raccontata moltissimo nei suoi romanzi, anche se, come è giusto, con la distanza delle invenzioni letterarie, con la costruzione di personaggi che prendono la loro strada, che non sempre obbediscono ai piani dei loro creatori.
Nella Frantumaglia, Elena Ferrante dice tantissimo di sé e del suo lavoro, più di quanto basti per qualsiasi scrittore, non fosse che l’epoca impone un presenzialismo ossessivo e, diciamolo, chi fa letteratura, chi scrive romanzi, anela oggi anzitutto a vedersi sui giornali, sui banconi delle librerie, nei festival e convegni, ad ascoltarsi a Fahrenheit, a recitarsi negli stupidissimi incontri televisivi. È anche a questo che, mescolando, si direbbe, una vocazione psicologica personale e una scelta intellettuale. Elena Ferrante si è rifiutata da subito, e il suo successo (inatteso da tutti, e per prima certamente da lei medesima) non è il risultato di una strategia bensì del valore, pieno e riconosciuto, di quel che lei ha scritto.
L’assenza mediatica ha giovato a questa scrittrice come un segno di rigore, di encomiabile serietà, che esigeva ed esige l’attenzione ai libri e non a chi li ha scritti, e però ha certamente nuociuto in Italia alla sua fama, almeno inizialmente, perché non avere un volto e una storia riconoscibili, non farsi ricevere e interrogare dal pupazzetto della Rai, non farsi intervistare dai giornali con accompagnamento di foto che tirino al glamour, non girare periodicamente per librerie lungo l’intera penisola e le isole a presentare i propri libri, non partecipare alle fiere, non frequentare i tremendi salotti cultural-politici romani e milanesi, non concorrere ai premi e presenziarvi (e dunque non essere premiabile, come ha ovviamente dimostrato lo Strega, dato che la presenza è fondamentale e se non c’è spettacolo non c’è premio), tutto questo non stimola gli addetti ai lavori e i consumatori di cultura. E l’accademia arriva, come sempre, a occuparsi dei viventi tardi o mai, e secondo canoni e pregiudizi molto consolidati. Insomma, che la Ferrante non abbia un volto e un corpo riconoscibili le ha nuociuto e le nuoce, e non è un caso che il successo forte le arrida in Italia da poco sulla scia di quello statunitense…) ma dall’altro è una garanzia di serietà, e attira i lettori meno condizionati dai meccanismi della società dello spettacolo, i “pochi ma buoni”.
La frantumaglia è composto anzitutto di risposte a interviste non superficiali (forse quelle superficiali sono state subito cestinate) e di corrispondenza (appassionante, a inizio libro, quella con Mario Martone sul passaggio di L’amore molesto da romanzo a film) ma anche di testi senza destinazione, abbozzi a volte di articoli o articoli compiuti come quello bellissimo sul film di Chéreau Gabrielle analizzato in confronto al racconto di Conrad che l’ha ispirato, Il ritorno. No, “la Ferrante” non è certamente una scrittrice di scarsa cultura, conosce bene i suoi classici e ha gusti precisi, ha una formazione coerente. Sa che cos’è la letteratura, e sa che, dedicarvisi, non vuol dire sfogare le proprie frustrazioni o velleità, la propria sete di riconoscimenti, bensì affrontare una sudata costruzione in coerenza a un proprio progetto e a una propria visione, entrando in un campo e in una storia dove i confronti sono obbligati e, per chi non gioca e ha un forte talento, possono essere travolgenti e a loro modo tremendi, decisivi di una vita. Ha avuto una sua evoluzione di scrittrice, da un impasto realistico-psicologico più denso e morboso a una larga e bensì profonda ricchezza romanzesca che affronta la più difficile e classica delle sfide, quella, con L’amica geniale, del vasto romanzo a sfondo corale con la precisa definizione di un’epoca storica a partire da dati di costume e d’ambiente, però mettendo a fuoco pochi personaggi (infine due, la narratrice e “l’amica geniale”, due caratteri femminili perfettamente e quasi ossessivamente delineati) che stabiliscano caratteri in qualche modo universali, anche se collocati su sfondi sociologicamente, antropologicamente, e storicamente attendibili, influenti sulla loro evoluzione.
Si può amare di più questo o quel libro della Ferrante, ma non v’è dubbio che si tratti di una vera scrittrice, delle poche e dei pochi degni di restare, alla faccia dei gazzettieri e dei pettegoli, dei curiosi e morbosi e dei professorini o, come li chiamava Machado, dei “señoritos” che si dilettano inventandosi letterati. La Morante distingueva: ci sono gli scrittori, pochi, e ci sono gli scriventi, tanti. Ma proprio il nome della Morante, insieme a quello della Ortese più volte citati nella Frantumaglia, servono a dire una differenza: manca alla Ferrante, o manca ancora, una dimensione “religiosa”, tragica o salvifica che sia, dell’esistenza. È una scrittrice che potremmo forse definire dolorosamente laica. E ovviamente non è un limite, in un’epoca che mistifica così facilmente sia il laicismo che la religiosità.
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