Cultura

Antagonisti verso se stessi

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Scienza e Filosofia

Antagonisti verso se stessi

L’esercizio ascetico.  «Le tentazioni di San Girolamo», pittore dell'ambito di Bartolomeo Gennari (1594-1661), Galleria Estense di Modena
L’esercizio ascetico.  «Le tentazioni di San Girolamo», pittore dell'ambito di Bartolomeo Gennari (1594-1661), Galleria Estense di Modena

La lotta di cui parlerò è quella che ciascuno combatte, fin dall’infanzia, per costruire se stesso confrontandosi con gli altri e con il mondo. Essa comporta, inevitabilmente, l’obbligo di sottomettersi a una dura disciplina, fatta di doveri, codici di condotta e modi «appropriati» di pensare e sentire, dapprima imposti dall’esterno e poi interiorizzati e rielaborati.La vittoria su se stessi, ammesso che si consegua, non è mai, tuttavia, completa e definitiva. Implica un aspro conflitto che scinde la volontà, opponendo una parte di noi che cerca di prevalere a un’altra riluttante a piegarsi e sempre pronta a ribellarsi o a negoziare compromessi al ribasso. Ogni persona porta in sé le ferite e le cicatrici di questa guerra per distaccarsi dalla propria vita meramente biologica. Nello steso tempo, tenta di emendarsi da idee e forme di condotta riprovevoli in modo da conquistare una sempre maggiore autonomia.

In tale confronto l’individuo, rischiando di logorarsi e di perdersi, avverte la tentazione di lasciarsi andare, di abbandonare l’arena del conflitto, di cedere al desiderio di irresponsabilità o di dare retta ai richiami della nostalgia, che lo invita a mettere indietro l’orologio della propria storia e ad abbandonare la battaglia. Troppe appaiono le «spine» che i comandi e gli obblighi hanno conficcato nella sua carne, troppi gli insuccessi e le inadeguatezze cui è andata incontro.

Nella nostra tradizione la sfida a combattere contro se stessi si è modellata non solo secondo tecniche di autocontrollo, ma anche grazie all’elaborazione di fini in grado di includere e orientare l’intera esistenza, ossia mediante ideali di «vita buona» o di perseguimento del «sommo bene». Tra gli innumerevoli paradigmi predisposti nel tempo e nello spazio, ho deciso di esaminarne soltanto due, quelli canonici di cui – mediante molteplici filtri e ibridazioni – siamo noi stessi gli eredi. Entrambi si basano sulla metafora sportiva della corsa, declinata, in modi sostanzialmente diversi, da San Paolo e da Thomas Hobbes.

Leggiamo nella prima Lettera ai Corinzi: «Non sapete che nelle corse dello stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però, ogni atleta si sottopone in tutto alla disciplina. Essi lo fanno per poter ottenere una corona corruttibile, noi invece incorruttibile. Anch’io, dunque, corro ma non come chi è senza meta. Faccio pugilato, ma non come chi batte l’aria. Anzi, colpisco duramente il mio corpo e lo riduco in schiavitù, perché non succeda che, dopo aver predicato agli altri, io stesso venga squalificato».

Il cristiano corre, dunque, per conseguire la vita eterna, il paradiso. Entra in una gara alla quale tutti possono partecipare, ma che ha i suoi campioni: i martiri, gli atleti di Cristo, coloro che, subendo torture e morte, hanno strenuamente lottato per testimoniare la propria fede. Essi sono perciò rappresentati con in mano il ramo di palma dei corridori vittoriosi (la simbologia rinvia anche al fatto che l’albero di palma produce un’inflorescenza quando sembra ormai morto). Una volta cessate le persecuzioni, la lotta dei cristiani si interiorizza: non più la coraggiosa resistenza a sofferenze stoicamente sopportate. Ora gli anacoreti, i monaci, i santi combattono contro se stessi, diventando dei virtuosi nelle battaglie contro le sollecitazioni al peccato, attribuite al Maligno che è in loro.

La posizione di Hobbes è del tutto diversa: non si tratta per lui di conquistare il paradiso, ma di primeggiare, in questo mondo, su tutti gli altri partecipanti, in una gara in cui non esiste né un fine ultimo, né l’elargizione del sommo bene, ma solo un movimento ininterrotto, paragonato a una «corsa» che «non abbia altra meta, né altro premio, che l’essere davanti» e in cui «Guardare quelli che stanno dietro è gloria. / Guardare quelli che stanno davanti è umiltà. / Il perdere terreno per guardarsi indietro, vanagloria. Essere superato continuamente è infelicità / Superare continuamente quelli davanti è felicità. / E abbandonare la pista è morire».

Non si tratta più, come nella filosofia degli stoici e degli epicurei, di conseguire la tranquillità dell’animo, di giungere a posizioni contemplative di equilibrio statico, ma di raggiungere un piacere e una felicità che nascono da un incessante movimento: nel non fermarsi mai e nell’avanzare sempre: «La felicità è un continuo progredire del desiderio da un oggetto a un altro, non essendo il conseguimento del primo che la via verso quello che viene dopo». O, in maniera più incisiva, la felicità è «un progredire che incontra un minimo d’impedimenti al conseguimento di fini sempre più avanzati (ad fines semper ulteriores minime impedita progressio)».

Giungendo velocemente all’oggi e trascurando per ovvia brevità molti passaggi riguardanti gli articolati processi e le molteplici teorie della conquista del Sé attraverso un severo confronto (si ricordino soltanto la dialettica di Hegel o la psicoanalisi di Freud), è giusto dire che la nostra civiltà procede in questo periodo verso l’attenuazione o, addirittura, verso l’elusione dei conflitti volti a ricomporre la personalità di ciascuno? E che la corsa, se si affronta, ha per meta, soprattutto, l’avanzamento di carriera o il benessere?

La recente insistenza di Hadot sugli «esercizi spirituali», di Foucault sulla «cura di sé» o di Sloterdijk sull’imperativo «Devi cambiare la tua vita!» non è, inoltre, l’indice di un’assenza di slanci in direzione di una maggiore consistenza della soggettività o, per converso, di una minore capacità di far fronte all’aggravarsi delle situazioni?

La perdita d’autorità del Super-io (dell’insieme dei valori, comandamenti e divieti – tramandati e in parte inconsci – che sottopongono l’io al dominio di un censore interno) appare ora responsabile dell’ipertrofia di un io diventato fragile, indifeso e spesso narcisistico. La maggiore indulgenza nella vita familiare, scolastica e sociale, specie verso le giovani generazioni e il fatto che l’incuria sui tenda a prevalere sulla cura sui, mostra forse quanto si siano allentati i freni inibitori dell’autocontrollo teso a una crescita del Sé mediante i conflitti? Si può allora sostenere che lo scarso impegno e rendimento di molti studenti nelle nostre scuole rispetto a quelli dei paesi asiatici (Cina, Giappone, Corea) rappresenti un sintomo di debolezza della nostra civiltà, un segno di decadenza e di «tramonto dell’Occidente»? Ci siamo realmente “sdraiati”?

Oppure è vero che possono esistere società non agonistiche (come quelle studiate da Margaret Mead e Gregory Bateson nel 1942 a Bali, dove, fin dalla prima giovinezza, ogni contenzioso veniva risolto da un arbitro esterno)? Forse, in questa fase storica, crediamo di avere meno bisogno di sforzarci e di ingaggiare una guerra contro noi stessi perché godiamo, in diversa misura, della maggiore rendita di posizione accumulata negli ultimi cinque secoli di dominio del globo, di una maggiore ricchezza e libertà nei confronti di paesi che devono colmare il divario. Essi devono affermarsi anche attraverso la forza di volontà, una maggiore applicazione e intensità nello studio e nel lavoro, in ciò favoriti da tradizioni etiche e ideologie che subordinano l’individuo alla collettività (come nel caso del confucianesimo o dei cosiddetti «valori asiatici»). Eppure, nascondendo i conflitti, gloriandoci pigramente del fatto di essere “liquidi” e ’plasmabili’, indebolendo la lotta per auto-sovvertirci, come potremo reggere – perfino sul piano culturale – nel mondo globalizzato e nelle economie di mercato di un non lontano futuro, alla sfida “hobbesiana” di una concorrenza aggressiva e spietata?

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