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Nel cervello dei matematici

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Scienza e Filosofia

Nel cervello dei matematici

Complici alcune ricerche sulle capacità di polli, pesci e altre creature di comprendere le numerosità, mi è capitato in questi ultimi anni di essere invitato a raccontare a matematici di professione quello che abbiamo appreso sull’esistenza di circuiti nervosi, probabilmente molto antichi dal punto di vista evolutivo, che sono responsabili della nostra cognizione di spazio, tempo e numero, in una forma non simbolica. Ho potuto così notare come una porzione dei miei ascoltatori si trovasse perfettamente a proprio agio con queste evidenze neurobiologiche.

Sulla scorta dell’introspezione molti matematici ritengono che la loro attività mentale impieghi strumenti invero molto differenti da quelli linguistici.È la posizione che aveva espresso Albert Einstein in una famosa lettera al matematico Jacques Hadamard: «…non sembra che le parole o il linguaggio, sia scritto che parlato, abbiano un qualche ruolo nel meccanismo del pensiero. Le entità psichiche che sembrano servire come elementi del pensiero sono certi segni e immagini più o meno chiare che possono essere riprodotte o combinate volontariamente…nel mio caso gli elementi summenzionati sono del tipo visivo e qualcuno del tipo muscolare. Le parole convenzionali e altri segni devono essere ricercati con fatica solo in un secondo stadio, quando il suddetto gioco associativo è sufficientemente stabilizzato e può essere riprodotto a volontà…». L’introspezione, però, potrebbe trarci in inganno.

Il linguista Noam Chomsky, ad esempio, vede le cose molto diversamente da Einstein, ritenendo che le capacità matematiche derivino da un’astrazione compiuta a partire dalle operazioni linguistiche. Se si considera l’algebra, con le sue strutture organizzate gerarchicamente (pensate alle parentesi a scuola), la relazione con la sintassi del linguaggio naturale appare ovvia. Sarà forse per questa ragione che una porzione dei miei uditori matematici pare riluttante all’idea che il senso approssimato del numero e, più in generale delle quantità - discrete, spaziali o temporali che siano - costituisca il fondamento della loro disciplina, insistendo invece sul fatto che la matematica è prima di tutto «linguaggio».

Ora non c’è dubbio che la matematica debba poggiare sull’uso di un sistema di simboli esterno. Il punto è se il linguaggio naturale costituisca il fondamento della cognizione matematica o se questa proceda da meccanismi del tutto diversi che possono eventualmente usare il linguaggio naturale, o altri sistemi di simboli, come veicoli per quel «secondo stadio» cui accennava Einstein. Ad esempio, anche se oggi in Occidente il linguaggio è il supporto simbolico privilegiato per l’apprendimento dell’aritmetica esatta, il medesimo ruolo è stato svolto a lungo, con pari successo, da supporti di tipo spazio- temporale, come l’abbaco, in molti paesi dell’Asia.

Amalric e Dehaene hanno di recente affrontato questi problemi in maniera diretta, sottoponendo a scansione con risonanza magnetica funzionale i cervelli di quindici matematici e quindici non matematici di simile qualificazione accademica (il secondo 2 gruppo essendo costituito di docenti universitari di discipline umanistiche). I soggetti dovevano ascoltare degli enunciati e valutarli dopo una breve riflessione come veri, falsi o privi di significato. Alcuni enunciati erano di natura matematica (concernenti conoscenze di algebra, di topologia, di geometria e di analisi) altri erano di natura non matematica (concernenti conoscenze generali di tipo storico o relative al mondo naturale). I risultati hanno mostrato che la riflessione su enunciati di tipo matematico (che peraltro, pur essendo di una certa sofisticatezza, non contenevano numeri) attivava, nei soli matematici, una rete specifica che comprendeva le aree parietali e frontali della corteccia. Queste aree appaiono essere anatomicamente ben distinte da quelle implicate nel linguaggio verbale e nella conoscenza semantica, ma sono invece le medesime, seppure rivelino nei matematici di professione un’attività amplificata, usate nella valutazione di semplici problemi inerenti spazio e numero anche da chi non ha alcun addestramento particolare in matematica. L’attivazione di queste aree si osserva in maniera specifica quale che sia il particolare dominio matematico espresso nell’enunciato - algebra, topologia, geometria o analisi - lasciando invece sistematicamente escluse le aree del linguaggio.

Un amico matematico mi ha confessato con una certa fierezza di aver provato a misurare la propria acuità nel cosiddetto «senso del numero», approssimato e non simbolico, ottenendo delle prestazioni molto lusinghiere. Ciò non mi ha sorpreso. Nei test di senso del numero sullo schermo di un computer sono mostrati dei pallini gialli e blu, di varia grandezza e densità, con la consegna di dire, ad esempio, se vi siano più pallini gialli o blu (se volete mettervi alla prova: http://www.nytimes.com/interactive/2008/09/15/science/20080915_NUMBER_SENSE_GR APHIC.html). I test hanno rivelato una sorprendente relazione bi-direzionale con le abilità aritmetiche formali che si acquisiscono a scuola. I bambini con acuità superiore nel senso del numero tendono a ottenere punteggi migliori nella matematica scolastica (ma non in altri ambiti, come per esempio il linguaggio o la logica, suggerendo che la relazione sia piuttosto specifica).

In maniera simmetrica, si è visto che l’educazione alla matematica formale acuisce la precisione del senso approssimato del numero. Nell’insieme queste osservazioni suggeriscono che le vette più sofisticate dell’astrazione matematica poggino su alcuni semplici meccanismi biologici per la stima delle quantità, meccanismi che condividiamo con le altre specie. Nella corteccia parietale delle scimmie vi sono neuroni la cui attività è modulata in maniera specifica dalle numerosità. Ad esempio, questi neuroni mostrano un aumento selettivo della frequenza di scarica per un valore determinato di una certa numerosità (poniamo cinque pallini mostrati all’animale sullo schermo di un computer), in maniera gradualmente approssimata (ovvero la risposta dei neuroni è massima con cinque pallini e via via minore per numerosità decrescenti come quattro pallini, tre pallini… o crescenti come sei pallini, sette pallini…).

Il neuroscienziato Andreas Nieder dell’università di Tubinga ha mostrato che se gli animali vengono addestrati ad associare un simbolo arbitrario esterno, come ad esempio una cifra araba, alle diverse quantità non simboliche rappresentate dalle numerosità dei pallini, si possono rintracciare, questa volta non nella corteccia parietale, ma in quella frontale, neuroni la cui selettività di risposta si manifesta sia per l’aspetto non simbolico sia per quello simbolico. I neuroni della corteccia frontale mostrano cioè un picco nella frequenza di scarica quando l’animale osserva, ad esempio, tre pallini sullo schermo, ma anche 3 quando vede il simbolo per il numero arabo corrispondente, «3».

Nella direzione dell’indipendenza tra strutture della sintassi linguistica e strutture della sintassi matematica vanno anche i dati della neuropsicologia clinica. Pazienti gravemente agrammatici, a causa di lesioni alle aree deputate all’elaborazione linguistica, incapaci di capire frasi incassate come «La ballerina che danzò per l’impresario che possiede il teatro che deve essere demolito è andata in vacanza» possono, opportunamente interrogati, calcolare senza errori operazioni con le parentesi come ?32 + ?(3+2) x 4? : 2?. Insomma, matematica e linguaggio sembrano costituire repubbliche ampiamente indipendenti. La possibilità e l’eventuale estensione dei loro commerci, se questi hanno luogo – ad esempio attraverso una connettività funzionale tra le aree del linguaggio e quelle della numerosità – rimangono da chiarire.

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