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Diario di una profanazione

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Diario di una profanazione

Brutale. Sofia Loren (Cesira) e Eleonora Brown (Rosetta) ne «La ciociara» di Vittorio De Sica (1960). Loren vinse l’Oscar come migliore interprete
Brutale. Sofia Loren (Cesira) e Eleonora Brown (Rosetta) ne «La ciociara» di Vittorio De Sica (1960). Loren vinse l’Oscar come migliore interprete

Una mattina al risveglio scoprimmo che non c’era più il confine: ci avevano annesso alla madrepatria. Ovviamente la notizia ci arrivò in ritardo perché abitiamo nella campagna più sperduta, ma un operaio che viene a raccogliere la legna e i rami caduti ci disse che i soldati avevano invaso la città e occupato l’unico albergo esistente. Disse che se ne stavano lì a sbevazzare, sbronzarsi, pretendere cene faraoniche e terrorizzare le cameriere. La popolazione si nascondeva, non sapendo se temere di più i soldati turbolenti o i loro cani enormi liberi di scorrazzare senza museruola. Disse che avevano uno strumento per esaminare la parte inferiore delle auto, uno specchio con le ruote che gli risparmiava il fastidio di chinarsi. Che razza di scansafatiche.

La mattina in cui ne avvistammo uno vicino al muro rotto del vialetto dietro casa ci prese il tremito, e non a torto. La tenuta mimetica verde, kaki e marrone era perfetta per i colori di questa lurida campagna. Perché avessero deciso di venire da queste parti era un enigma e davamo per scontato che avrebbero sbaraccato subito. Nostra madre ci radunò tutti in una stanza da letto, convinta che saremmo stati più al sicuro: così non c’era pericolo che qualcuno si allontanasse e potevamo fare la guardia a turno. Per fortuna giusto la settimana prima avevamo raccolto le noci e le mele conservandole sui ripiani di legno per l’inverno. Nostra madre era preoccupata per la mucca, disse che se non la mungevamo avrebbe sentito un dolore lancinante a quelle povere mammelle, disse che il latte sarebbe gocciolato su tutta l’erba. Quel latte ci sarebbe tornato proprio comodo. Nostro padre non c’era. Nostro padre era sparito tanto tempo prima.

La terza mattina si presentarono urlando il nome di mia madre, Rosanna. Sembrava diverso pronunciato nella loro lingua, e ci domandammo come facessero a saperlo. Erano proprio dei vandali. Due di loro la spinsero fuori in malo modo e il più vecchio le tirò la lunga treccia.

Mia madre ci abbracciò uno a uno e disse che sarebbe tornata subito. Non tornò. Noi aspettammo e dopo un lasso di tempo spaventoso scendemmo al piano di sotto in punta di piedi senza però trovare accesso alla cucina perché la porta che la separava dall’ingresso era sbarrata da una catasta di sedie. Alla fine riuscimmo a forzarla e lo spettacolo fu raccapricciante. Il suo grembiule, i vestiti e la biancheria intima erano disseminati in terra, e anche le forcine e i due pettinini per i capelli. In una madia di legno dove in passato lei metteva il becchime per i polli e le galline avevano piazzato il sedile di una vecchia automobile. Guardammo invano dalla finestra pensando di vederla nel vialetto dietro casa o, meglio ancora, che risaliva il sentiero, distrutta ma riconsegnata alle nostre mani. C’era un soldato laggiù, il fucile armato. Lei dov’era? Che cosa le avevano fatto? Quando sarebbe tornata? La cosa strana è che nessuno di noi pianse e nessuno perse la testa. Con un po’ di fatica portammo fuori il sedile della macchina puzzolente buttandolo giù dai tre gradini della porta di servizio. Non potevamo fare di più per ribellarci ai nostri nemici. Poi salimmo in camera ad aspettare. La nostra mucca aveva smesso di lamentarsi e capimmo che avevano preso e molto probabilmente massacrato anche lei. Il prato vuoto aveva un’aria spettrale, anche se i corvi e le taccole facevano il solito fracasso serale. Indovinavamo approssimativamente l’ora dai cambiamenti nella luce e nel cielo. Più tardi la placida luna venne a fare una capatina. Che bello, pensammo, se l’operaio fosse tornato a darci notizie. Il rumore della sua motosega era insopportabile ma stavolta l’avremmo accolto a braccia aperte perché avrebbe significato un ritorno ai vecchi tempi, ai tempi sicuri, prima che portassero via nostra madre e la nostra mucca. Il flauto di legno di nostro fratello era sulla griglia del camino perché non aveva il coraggio di suonare una canzoncina, nonostante le implorazioni.

La quinta mattina trovammo un motivo per rallegrarci. La sentinella era scomparsa dal suo posto e nessuno venne a piantonare quel pezzo di muro rotto. Lo interpretammo come una liberazione. Nostra madre sarebbe tornata. Parlammo delle cose che avremmo fatto per lei. Le prendemmo dei vestiti puliti dall’armadio stendendoli ordinatamente sul letto. Le calze di filo di Scozia ricadevano in uno scintillio rosa sotto un raggio di sole, e le immaginammo riempite dalle sue gambe. Ci dicemmo che il peggio era passato. Addentammo le mele tirandoci i torsoli per scherzare. I denti crocchiavano furiosamente sulle noci e le nocciole, e selezionando le particelle polpose e saporite ce le dividemmo come veri amici, come una vera famiglia. Nostro fratello suonò una canzoncina. Parlava del sole che tramonta su un posto chiamato «Boulevouge».

Il nostro ottimismo ebbe vita breve. La sera sentimmo di nuovo sparare e al pezzo di muro rotto era tornato un soldato, una presenza indistinta. Dormire era impossibile, perciò facevamo la guardia e pregavamo. Andò avanti così per due giorni e due notti e, senza cibo né sonno, i nervi cedettero, diventammo isterici e ci toccò schiaffeggiarci a vicenda, e schiaffeggiarci forte, per ricondurci alla ragione.

I vandali e le loro tenute mimetiche sono tornati. Sono arrivati da una via secondaria, passando dal fitto bosco anziché dalla via principale come ci aspettavamo.

Sono in cucina, ridono e urlano nelle loro lingue barbare. La paura ci gronda di dosso come gronda il sangue. Se ci prendono tutti assieme forse riusciamo a radunare un po’ di coraggio, ma visti i precedenti è probabile che ci prendano separatamente. Stiamo ognuno nel suo angolino, muti, pietrificati, come piccole effigi, gli occhi fissi alla maniglia della porta, le orecchie che si sforzano di oltrepassarla, di calcolare quale gradino della scala stanno già calpestando.

Che bello se uno di noi potesse farsi avanti e offrirsi volontario per diventare il guerriero degli altri. Che firmamento d’amore sarebbe il nostro.

Un vuoto di morte nel mondo intero, nei campi e nelle fattorie saccheggiate e nelle capanne diroccate. Non si vede un’anima. Né un animale. Né un uccello. Qua e là carcasse dilaniate e lacerti di pelle dove gli animali devono aver combattuto fra loro in preda agli ultimi appetiti frenetici. Per poco non riuscivo a scappare. Stavo camminando verso un posto che non conoscevo, un posto sicuro. I soldati non si vedevano da settimane. Si erano eliminati a vicenda. Difficile capire da che parte stavano perché cambiavano schieramento, cambiavano uniforme. Dopo mia madre avevano preso mio fratello e poi le mie due sorelle. Ero fuori alla ricerca di cibo e, al ritorno, la nostra casa era una carcassa di fumo. Un orribile fumo nero. Avevo soltanto i vestiti che indossavo, un abitino verde sbrindellato e un cappotto di pelliccia che mia madre aveva ricevuto in regalo. A letto ci teneva caldo e a volte quando scivolava in terra mi alzavo per raccoglierlo. Era voluttuoso, il pelo morbido mi solleticava i piedi scalzi. Apparteneva al vecchio mondo, all’altro mondo, a prima che arrivassero i barbari. Perché siano venuti qui è un mistero, visto che non c’erano spoglie né miniere d’oro o d’argento: soltanto boschi, gl’intricati boschi e, in alcune zone coltivate, piccoli appezzamenti di avena o di orzo. Il solo pensiero del grano, prima verde e poi di un bel giallo maturo, dei filari di cavoli o di una qualsiasi cosa che crescesse, ti spezzava letteralmente il cuore. Forse mio fratello e le mie sorelle sono oltre il confine o forse sono morti. Mi muovevo al crepuscolo e la sera presto, infagottata nella pelliccia. Volevo sembrare una vecchia, sembrare una megera. Le vecchie non li attiravano; li attiravano le giovani, e più erano giovani, meglio era, come le fragole selvatiche. Fu attraversando un campo che sentii il rumore di un veicolo, e mi misi a correre, non sapendo di avere dentro tanta velocità. Stavano arrivando, erano sempre più vicini, le ruote lappavano la terra corrugata che costeggiava il bosco dov’ero diretta. Quello che saltò giù mi caricò a bordo e mi lanciò al Gran Capo. Scoppiettavano di felicità. Lui mi prese in grembo e mi aprì a forza la bocca per costringermi a rispondere alle sue sconcezze. Gli occhi erano duri come ghiaccio, il bianco una cartilagine giallognola. Le facce erano imbrattate di vernice e avevano tutti dei tatuaggi violacei. Quello al volante si chiamava Gypsy. Fu un viaggio folle. Io gridavo, gridavo e il Gran Capo mi schiaffeggiava all’impazzata, squarciandomi come una pezza da piedi. Si fermarono alla fornace della calce abbandonata.

Lui fu il primo. Quando mi divaricò mi sembrò di morire, ma mi sbagliavo. Non muori se ti sembra di morire. I subalterni usavano le mani come staffe. Quando mi capovolsero pigiai i denti sul freddo pavimento di calce per pulirmi la bocca da loro. Dalle loro urla, dal loro peso, dalle loro lingue, dalla loro bava, da come mi sfondavano con la voglia di entrarmi dentro la testa, fino alla particella di Dio. Così la chiamava una vecchietta del paese, quell’ultimo angolino dove dici le preghiere e confidi a te stesso la verità di ciò che provi verso tutto e verso tutti. Lì non potevano arrivarci. Avevo smesso di urlare. Le urla erano soffocate. Dal tetto scoperchiato vidi un avvoltoio planare in un universo di blu. Aspettava che un altro lo raggiungesse e dopo un po’ ecco arrivare l’altro che era il suo compagno, e planarono via negli inferi cristallini. Rimettendosi i pantaloni continuavano a dire che cazzo, dovevano sbrigarsi. Il Gran Capo mi stava sopra, a cavalcioni, la pelliccia sulle spalle, e aveva un’aria astiosa, arrabbiata. Grondavo sangue e il terreno sotto di me era caldo. Vedevo lui dalla fessura degli occhi quasi chiusi. Per un attimo pensai che volesse uccidermi ma poi si girò dall’altra parte come se non valesse il fastidio, il macello. Il motore era già acceso quando Gypsy tornò di corsa e mi mise una sigaretta sul labbro superiore. Immagino che cercasse di dirmi qualcosa. Da piccoli ci raccontavano che se abbiamo una cavità sul labbro superiore è perché quando nasciamo un angelo viene e ci appoggia l’indice per farci mantenere il silenzio, il segreto. Poco alla volta tornai in me. Piccole cose, l’aria che s’insinuava nell’angusto recinto viscoso e il sangue che mi si asciugava addosso, come resina.

Tanto tempo fa avevamo una sveglia di alluminio con il retro staccato che funzionava con una sola pila, ma le pile scarseggiavano. Nostra madre toglieva la pila e noi indovinavamo l’ora dall’affievolirsi della luce, dal crepuscolo, dal canto del gallo e dall’unica mucca, l’unica fedele mucca che muggiva vicino alla palizzata, in attesa di essere munta. Uno di noi usciva con un secchio e lo sgabellino. Quando rimetteva la pila, l’ago d’argento ripartiva e le due lancette, come due morbidi insetti neri, strisciavano l’una sopra l’altra nel loro giro fedele. Il vestito verde acido a cui mi tenevo aggrappata, che stingevo, nel quale affondavo le unghie è inzaccherato di fiori, rosso sangue e prodighi, come papaveri. Appena riesco a camminare me ne vado. A cercare un’altra come me. Ci riconosceremo dal rosario di papaveri e da quello che diciamo con gli occhi. Noi, le profanate, a migliaia, disperse, arranchiamo sulla terra, la terra pietrificata, alla ricerca di un porto sicuro, se esiste.

Tante e terribili sono le strade che portano a casa.

Traduzione di Giovanna Granato

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