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Il mio diario da Amleto

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Teatro

Il mio diario da Amleto

Protagonista. Bob Wilson, classe 1941
Protagonista. Bob Wilson, classe 1941

Dopo la prima rappresentazione all’Alley Theater di Houston nel 1995 ho recitato Amleto prima alla Biennale Teatro di Venezia e poi in tutto il mondo per cinque anni. Non ho mai più ripreso questo spettacolo. Non penso che rifarò mai più la parte di Amleto, ma sogno di riprenderlo con un altro attore o forse anche un’attrice. Nell’attesa che questo accada il video dell’intero spettacolo – che utilizza immagini registrate nei teatri di Tokyo e Varsavia – è un prezioso documento che testimonia quanto ho fatto vent’anni fa, quando comunque le nuove tecnologie non erano così perfezionate. È un documento unico che testimonia quanto io oggi non riuscirei più a ripetere.

Al momento della creazione dello spettacolo, quando ho cominciato a lavorarci, ancora non era chiaro che l’avrei interpretato io stesso. Ero in scena in molti dei miei primi spettacoli poi, per un certo periodo, mi ero dedicato solo alla regia. Ma per Hamlet, non riuscivo a pensare a nessun attore in quel ruolo. Allora ho provato a farlo io. Già vent’anni fa temevo di essere troppo vecchio, ma ho pensato che fosse meglio non aspettare oltre. Il testo di Shakespeare era stato ripensato in forma di monologo. Mettendolo in scena come un flashback Amleto, poteva “recitare” tutte le parti. L’intero dramma si svolgeva nella mente di Amleto. Così il testo diventava un unico monologo, pronunciato solo qualche istante prima di morire. E io, durante le due ore della performance, assumevo sembianze diverse, ora quelle di un bambino o un adolescente, ora di un personaggio più anziano, o di una donna, o di un uomo maturo.

Fin dall’inizio mi era stato chiaro che c’erano due pilastri in questo testo: la scena di Ofelia e quella di Gertrude. Per me questi erano i due punti focali a cui ricondurre il resto. Questi due pilastri sono evidenti alla fine dello spettacolo: Amleto toglie tutti i costumi dal baule; la veste della madre da un lato del palcoscenico, quella di Ofelia dall’altro.

Il mio lavoro si svolge sempre a partire dalla forma, quando l’architettura dello spettacolo è delineata, si tratta bene o male di riempire “quella forma”, e questa fase si realizza in maniera piuttosto intuitiva. Anche per Hamlet il lavoro è partito da uno storyboard che ho disegnato e che conteneva la traccia di tutte le scene, come uno schema visivo. Sulla base di quello schema il mio collaboratore, Wolfgang Wiens, ha disposto il testo secondo l’ordine che emergeva da quella struttura formale.

Non ho legato l’allestimento a un periodo storico. Non mi interessavano e non mi interessano gli spettacoli che storicizzano o attualizzano una storia. Cercare di localizzare l’azione in un tempo o in un luogo specifici ne diminuiscono il valore, o ne suggeriscono già un’interpretazione. Hamlet non è al di fuori del tempo, ma ne è invaso: potrebbe svolgersi nel Rinascimento così come nell’anno 3000. Il fatto di aver lavorato in Oriente, in Europa e in America Latina ha condizionato tutto il mio teatro. Ho imparato molto dal teatro giapponese, dall’Opera di Pechino e dal teatro tradizionale indonesiano per quanto riguarda l’importanza dei gesti e dei movimenti degli occhi, ad esempio. In quella messinscena si ritrovano molte, moltissime esperienze maturate nei miei precedenti trent’anni di attività. Ma la vera sfida per me è stata capire se fossi in grado di recitare il testo, di memorizzarlo; se fossi in grado di applicare a me stesso le diverse tecniche che ho sviluppato nel dirigere gli attori: separare la coscienza del movimento dal testo, avere un movimento in contraddizione con il testo, enfatizzare un gesto in modo separato dalle parole.

Il mio Amleto era molto personale. È stato come scrivere un diario intimo. C’è stato un qualcosa di molto autobiografico nel mio approccio, nel mio modo di identificarmi, nei movimenti, nelle sfumature della voce, nel modo di pronunciare il testo e nelle associazioni del testo. Questa è la bellezza di Hamlet: è come un prisma con molti riflessi. È uno spettacolo a cui sono molto legato e lo rivedrò a Vicenza con nostalgia, nella speranza che lasci un segno per le nuove generazioni.

In particolare spero che sia il giusto viatico per il mio nuovo progetto di mettere in scena nel 2018 Edipo Tiranno nel magnifico Teatro Olimpico di Vicenza che ho visitato in uno dei miei primi viaggi in Italia quando ero ancora un ragazzo. Il testo di Sofocle, con le musiche del veneziano Andrea Gabrieli, è stato lo spettacolo inaugurale del capolavoro palladiano nel 1585. Mi piacerebbe coinvolgere nell’avventura l’Andrea Gabrieli del terzo millennio!

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