Cultura

In piscina senz’acqua

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Teatro

In piscina senz’acqua

Credo che a legare fra loro i molti titoli presentati al festival B.Motion – alcuni nuovi o nuovissimi, altri già rodati – fosse la centralità della ricerca drammaturgica, una ricerca particolare, sempre sul filo dell’abbattimento delle convenzioni rappresentative. Che nei testi di oggi gli attori non siano in genere chiamati a interpretare vicende fasulle, ma a raccontare direttamente la propria realtà o quella dei personaggi, è ormai scontato. Nella rassegna di Bassano, però, questa vena auto-narrativa assumeva una varietà di toni davvero sorprendente.

Prendiamo, a esempio, Piscina (niente acqua), una pièce inedita per l’Italia di Mark Ravenhill presentata dal gruppo veneto Amor Vacui. Qui una specie di trama c’è, incentrata su un’artista di successo finita in coma dopo essersi tuffata nella piscina vuota, e su quattro colleghi invidiosi. Ma tutto ciò non si traduce in vera azione: fermi alla ribalta, i quattro non fanno che ricostruire a turno l’episodio. E questa tecnica di scrittura è l’aspetto più interessante di una storia che, per il resto, non offre molti spunti significativi.

Anche la compagnia toscana de Gli Omini procede come sempre per schegge, per frammenti. Da testimonianze raccolte dai giovani di cinque comuni fiorentini è nato un canovaccio su una famiglia al centro della quale c’è una figlia chiusa in bagno da una settimana. Col solito estro metamorfico i tre attori-autori, Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca Zacchini, si moltiplicano in una serie di personaggi, il nonno rincoglionito, la nonna bigotta...

Queste figurette non aspirano a un’autonoma statura psicologica, restano nella sfera del bozzetto. Ma quei dialoghi strappati al linguaggio comune garantiscono una vivacità che coinvolge: gli Omini stanno girando tutti i festival, e questa fortuna non è casuale. È l’effetto di un procedimento collaudato, che traspone di continuo una piccola materia umana dalla vita alla scena. Pur proposta in forma di studio, la più forte di queste esperienze è stata di sicuro Purgatorio, realizzato – nella scia del toccante Pinocchio - da Babilonia Teatri con la compagnia ZeroFavole, che raccoglie attori disabili. Qui il sovrapporsi fra vita e rappresentazione è totale. Guidati da Enrico Castellani, sul palco con loro, i cinque interpreti seminudi, esposti agli sguardi nelle loro fragilità, giocano su argomenti all’apparenza slegati dalla loro condizione, i film di Rocky, il peccato e la confessione: ma, qualunque sia il tema trattato, parlano sempre di se stessi, della propria posizione nel mondo. C’è qualcosa di molto personale in questa ricerca dei Babilonia: i ragazzi down, la ragazza in carrozzella ricordano la strana troupe di Pippo Delbono, ma tra i due mondi c’è un abisso. Se Pippo fa dei suoi compagni le incarnazioni di una sofferenza assoluta, loro evocano un inatteso vitalismo, un bisogno di reagire al dolore.

Anche l’approccio degli Anagoor a un poemetto di Pasolini, L’italiano è ladro, è molto aguzzo e personale. L’allestimento spoglio - qualche neon, e i due attori in camicia e cravatta - fa pensare a un modo diretto, frontale di accostarsi a questi versi su un giovane contadino che, cresciuto col figlio dei padroni, scopre la rabbia di classe in un crescendo spinto fino alla bestemmia. Ma il regista Simone Derai crea un percorso più complesso, in cui si stratificano le varie redazioni del poema e l’intervento di una studiosa, Lisa Gasparotto, che illustra la travagliata genesi dell’opera. Non è solo una puntigliosa chiosa accademica, ma una parte dello spettacolo. È quasi la messa a punto di un modello di lettura pasoliniana dove la parola poetica – detta con lancinante adesione dai magnifici Luca Altavilla e Marco Menegoni - contiene in sé i germi del commento, dell’elaborazione teorica, che non attenua l’asprezza comunicativa del testo, ma la intensifica.

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