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«Yiddish» e altre identità

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Teatro

«Yiddish» e altre identità

Trentenne. Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985
Trentenne. Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dei figli, dei fratelli, dei giovani di belle speranze fuggiti con le loro belle speranze da un continente vecchio e disperante. Che sia in corso una diaspora, di cervelli e non solo, è sotto gli occhi di tutti; lo ricorda pure una barzelletta yiddish riportata da Sasha Marianna Salzmann in una delle sue ultime pièce: «Come parla al telefono un ebreo intelligente con uno stupido? Dall’America verso l'Europa».

Al debutto in prima nazionale martedì 13 settembre, prodotto da PAV, diretto da Paola Rota e ospite dell’XI edizione del festival romano Short Theatre, Lingua madre – Mameloschn della drammaturga tedesca, classe 1985, parla del complicato rapporto tra una madre (Lin), sua figlia (Clara) e la figlia di sua figlia (Rahel), tre generazioni di donne in perenne conflitto e fuga le une dalle altre: come già Davie, l’altro figlio di Clara e nipote di Lin, anche Rahel vuole lasciare la famiglia ed espatriare a New York per studiare. E come i suoi sradicati protagonisti, Salzmann è «sempre all’estero. Non sto mai in un posto che potrei definire “casa”. Non ho una cultura in cui identificarmi completamente, perciò non ho un luogo da lasciare. Viaggio molto per capire, per farmi un’idea, veramente mia, su cosa stia accadendo nel mondo: sono curiosa di sapere. Credo nello scambio, e credo che noi – come artisti, ma anche come esseri umani – diventiamo migliori viaggiando, muovendoci, migrando. Costruendoci da noi l’immagine di noi stessi. Penso che l’identità sia un mezzo di trasporto multiforme, che ci porta più vicino a dove vogliamo essere».

Il filo rosso dell’opera è, appunto, l’identità: in yiddish «Mameloschn» significa «lingua madre», ma designa anche l’yiddish stesso. Inoltre, benché per l’autrice sia qualcosa di cangiante e migrante, l’identità non può non ancorarsi alla famiglia, alias «Mischpoche, il raggruppamento di un clan che autoproduce problemi di cui necessita per vivere». Dalla radice, insomma, è impossibile fuggire: cauterizzarla significherebbe solo tagliare il ramo su cui si è seduti. «Qualsiasi cosa è dentro di noi», spiega Sasha, «le nostre madri, i nostri padri, la nostra storia. Niente può essere lasciato alle spalle. La domanda allora è: che cosa vogliamo tenere e sviluppare?».

Lei, ad esempio, ha scelto di essere una cittadina del mondo: nata in Russia, da una famiglia tedesca di origini ebraiche, vive tra Berlino e Istanbul. «Credo che un paese o una cultura di origine sia qualcosa che senti: tutto ciò per me è rappresentato dalla Turchia, anche se non pretenderei mai di definirmi turca. Sono solo innamorata di quella cultura, di quella letteratura, gente, lingua. La mia lingua madre (Mameloschn) è il russo: è la lingua che sento più vicina di tutte le altre, ma io non mi considero russa. La mia famiglia lasciò la Russia a causa dell’antisemitismo, e non mi sono mai sentita parte del paese in cui sono nata. Non ho radici tedesche, ma mi considero una scrittrice tedesca, infatti lavoro in tedesco. Sono un’atea, ebrea askenazita senza un paese. La mia patria (Heimat) è la mia scrittura: la porto con me dovunque vada ed essa si trasforma insieme a me».

Che idea si è fatta del recente colpo di stato, e conseguente repressione, in Turchia? «Istanbul è stata molto accogliente e aperta nei miei confronti. In un certo senso, per me è più facile stare lì che altrove. Ma è qualcosa di molto personale. A livello politico bisogna valutare se i recenti sviluppi siano il risultato di un processo in corso da dieci anni (o più) o una grande sorpresa. Io e i miei amici parliamo di questi problemi almeno dalle proteste di Gezi Park (nel 2013, ndr). Quando l’Akp (partito conservatore di Erdogan, ndr) ripeté le elezioni l’anno scorso, perché non gradiva l’esito del primo voto, ci fu clamore in Europa per supportare la democrazia turca. Bene, così non è stato. Angela Merkel si è recata ad Ankara e ha sostenuto Erdogan, senza incontrare i partiti democratici, senza parlare con l’opposizione, ma facendo un unico e chiaro accordo: voi ci proteggete dai rifugiati e noi vi diamo i soldi per questo. L’Europa ha sempre avuto bisogno di scarificare le democrazie negli altri paesi per mantenere in vita il proprio sistema di potere, costruendo in questo caso un muro contro le popolazioni in difficoltà, che fuggono dalle guerre. Noi europei siamo tutti coinvolti nella sanguinosa trasformazione della Turchia in una dittatura. Questo è il prezzo che paghiamo per i nostri confini, per la nostra ricchezza».

Per Salzmann, il microcosmo racconta il macrocosmo e la famiglia chiama in causa il mondo intero: nelle sue opere, tuttavia, non c’è «un tema ricorrente. Scrivo di ciò che mi disturba: può essere una storia familiare che mi rende insonne o un accadimento politico che mi sorprende. Proprio ora sto scrivendo un testo sul perché i giovani europei decidano di armarsi e di attaccare la società in cui vivono o di andare in un altro paese per lottare per una cosiddetta “causa più grande”. Nel lavoro precedente, invece, ho sviscerato come l’identità si costruisca a partire dalla memoria e come possa facilmente essere distrutta».

Ciò che le preme è capire se e come «potrebbe essere il teatro politico oggigiorno. Di fatto, il teatro è uno spazio politico in sé, per definizione: lo è il suo contenuto, lo è nella sua forma. Perciò se i teatri stanno chiudendo a causa degli attentati terroristici, è solo lo specchio di una società che occulta le proprie responsabilità: responsabilità di agire, ma anche di guardare in faccia l’orrore e provare a rinsavire, anziché continuare col “divide et impera”. I drammaturghi, come ogni altra persona, devono assumersi le proprie responsabilità perché tutti facciamo parte di un pubblico. James Baldwin disse: “Ogni poeta è colto in una situazione pre-rivoluzionaria e si plasma il ruolo da recitare... Noi dobbiamo essere là dove la tempesta sta per finire e buttarci nella prossima tempesta. La tempesta è sempre in arrivo”».

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