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Fenomenologia del dandy

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Fenomenologia del dandy

  • –Giuseppe Scaraffia

Nelle situazioni storiche fluttuanti, quando le classi sociali sembrano scomparire e le élites appaiono inadeguate al posto che occupano, il dandy ritorna con un messaggio cifrato. La sua morale si incarna nell’eleganza, non solo dell’abito ma anche del comportamento. Lo stile sostituisce così una morale ormai usurata. «Lo stile è un modo semplice per dire cose complicate», spiega Cocteau.

Per questo un esperto come Alain Montandon ha sentito il bisogno di raccogliere in uno stimolante dizionario un coro di voci su un ventaglio d’argomenti riguardanti questo mito tenace e inafferrabile. Il dandy, spiega Montandon, «non è un rivoluzionario: ostenta i diritti dell’individuo all’originalità, alla singolarità in una società ordinata e in tal senso la sua stessa esistenza è la prova del margine, dello spazio di gioco che le regole sociali consentono a chiunque». Il dandy è un’oasi di individualismo e di indipendenza morale in una società in cui le folle si lasciano cullare nell’illusione di una sorta dandysmo di massa: i consumi ci illudono sulla nostra unicità mentre ci uniformano.

Il dandy può rasentare l’eccentricità senza mai scivolarvi. Il che gli consente di compiere serenamente delle scelte ardite. Il dandy, diceva Jules Barbey d’Aurevilly, «si prende gioco della regola, pur continuando a rispettarla» e la regola di cui si parla è la moda. Chi se ne astrae eccessivamente rischia di passare dall’abito al costume, mentre il dandy intrattiene dei rapporti col passato solo grazie a delle citazioni, dei rappel, dei richiami che alludono a un mondo scomparso, come il bastone dal grosso pomo d’oro di Wilde, omaggio a quello più celebre di Balzac.

In solitudine o in società, il dandy è perennemente solo perché vuole sopra ogni cosa piacere a se stesso. Voltare le spalle al mondo, nel deserto o tra la folla, è una tentazione forte in una società come quella attuale, dominata dal culto dell’apparenza mediatica. Ma il dandy raccoglie la sfida delle modernità, anche se sa di essere destinato alla sconfitta. Il fatto è che, come sapeva Barthes, il vero dandy vuole essere riconosciuto solo da un occhio esperto come il suo. Guardando distrattamente l’opera d’arte vivente che è diventato, gli altri, come i visitatori delle mostre, vedono solo quello che sanno vedere.

Una calibrata originalità, questo è il segreto del dandy, troppo artificioso, osservava Barbey d’Aurevilly, per non essere naturale. Il dandy infatti non deve essere elegante, ma «ben malvestito» come Drieu La Rochelle.

Purtroppo la società di massa, come una scimmia maldestra, imita subito in modo rapido e sommario le sue scelte, consegnandole alle folle e quindi a un nuovo conformismo. Il dandy nasce dalla società di massa come Venere dall’onda, ma cerca continuamente di eludere il suo abbraccio banalizzante. Il dandy di oggi è abituato al fatto che la sua originalità verrà rapidamente imitata e diffusa. Quindi si sposta su nuove scelte, pur sapendo che presto gli verranno sottratte. È diventato un nomade, un guerrigliero della stile impegnato in una lotta impari, ma appunto per questo irrinunciabile. «L’invisibilità mi sembra essere la condizione dell’eleganza», sosteneva Jean Cocteau.

La frivolezza del dandy è un effetto della sua lucidità. Il dandy sa che tutto è destinato ad essere travolto dalla corrente del tempo e ne prende atto. Presa coscienza dell’effimerità della vita, il dandy decide di realizzare la sua arte nel modo più effimero: nel suo stile di vita, destinato ai pochi spettatori in grado di capirlo. È un pascaliano più conseguente di Pascal, che decide di consacrarsi stoicamente al divertissement.

L’esteta si barrica in un mondo artificiale contro l’imbarbarimento universale. Il dandy invece frequenta impavidamente una realtà che disprezza, ma che continua a incuriosirlo. A disagio ovunque è a suo agio ovunque. Per il dandy è indispensabile comporre il mosaico della sua sublime apparenza con oggetti di gusto. Questo, al di là del prezzo, è il suo vero lusso, la sua preoccupazione costante.

Chi si sente dandy oggi? Come nel passato tutti gli insoddisfatti di genio, coloro che si sentono limitati o traditi dalla loro definizione sociale, i delusi dalle speranze rivoluzionarie e i nostalgici di quelle reazionarie. Sono un’élite non riconosciuta, silenziosamente eversiva, metodicamente eccentrica e intenzionata a non confondersi con la borghesia, né con la bohème artistica. Sono coloro che si rifiutano di soggiacere ai miti della società di massa e preferiscono la solitudine alla resa alla banalità diffusa.

Stendhal definiva le teorie dei filosofi tedeschi sapienti castelli di carta. Ma un’analoga sfiducia ci spinge in questi anni a ricavare una fragile filosofia dal comportamento di alcune persone o categorie di persone e il dandy, l’unico in grado di tradurre l’etica in estetica, è un soggetto stimolante per un’umanità priva di modelli. Per non parlare della cura e della consapevolezza con cui si vestivano pensatori come Kierkegaard o Camus.

Nato dalla morte di Dio e dall’avvento della società di massa, questa figura apparentemente superficiale si oppone alla banalizzazione dell’esistenza con una coerenza inedita. Il paradosso del dandy sta nell’idea che non esista una naturalezza, ma che la natura dell’essere umano sia quella di ricrearsi senza sosta. «Che cos’è il dandy?» si chiedeva Charles Baudelaire, per poi concludere: «Eterna superiorità del dandy».

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Dictionnaire du dandysme , a cura di Alain Montandon, Honoré Champion Parigi, pagg.723, €.110