Cultura

La dialettica sui confini

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MIGRANTI & EUROPA

La dialettica sui confini

Premiata. Questa foto, scattata da Warren Richardson  per Reuters a  Röszke, al confine tra Serbia e Ungheria,  il 28 agosto 2015, ha vinto il  World Press Photo
Premiata. Questa foto, scattata da Warren Richardson per Reuters a Röszke, al confine tra Serbia e Ungheria, il 28 agosto 2015, ha vinto il World Press Photo

Ci sono parole poco usate finché la cronaca o la Storia impongono di rispolverarle. Allora non solo le si usa, ma si discute della loro accezione, si operano distinguo, ci si confronta sulla latitudine del loro significato.

L’immigrazione di massa (l’invasione, secondo alcuni) ha riacceso l’interesse intorno al termine «confine».

Il tema è tra i più complessi, non solo perché impone di maneggiare diverse discipline, circostanza che dunque non consente risposte semplici, ma anche per la portata del fenomeno, davvero drammatica. E per una volta, il termine non è usato metaforicamente.

Cominciamo con due domande legate tra loro: l’ingresso massiccio nel nostro territorio di appartenenti a culture diverse costituisce solo un problema o può diventare pure un’opportunità? E, in questa stessa ottica, l’idea di «confine» richiama maggiormente quella di «barriera» o quella di «soglia»? Confessiamo subito che questa suggestione è presa in prestito da Massimo Cacciari. Quest’ultimo, riflettendo a proposito di confini e migrazioni, propone l’alternativa tra «limen» e «limes». Il primo termine significa “porta” da cui per definizione si entra e si esce; il secondo indica viceversa una barriera, dunque, più nettamente, richiama una chiusura. Oggi, prosegue Cacciari, «siamo obbligati a decidere se il confine è limen o limes, soglia o barriera, luogo dove ci trinceriamo o dove arriva lo sguardo, la volontà e il desiderio».

Proviamo a rispondere alla domanda mettendoci in due prospettive, che sembrano essere quelle ora più comuni.

Il primo punto di vista, che un tempo si sarebbe detto reazionario e ora è definito populista, individua la – vera o presunta – identità di un popolo come un valore assoluto e perciò addita il migrante come un nemico dentro casa. L’immigrazione, specie se di massa, è considerata una calamità: l’iniezione nel tessuto sociale di stranieri rende infatti instabile il popolo, elemento costitutivo dello Stato. Qui non c’è spazio per il diverso, di conseguenza è inevitabile la costruzione di muri che separino e difendano oppure, al massimo, una spinta forte all’assimilazione, ovvero all’annullamento delle differenze.

In una prospettiva liberale, individualista ed empirica, invece, non esiste alcuna ostilità preordinata nei confronti dello straniero. I nuovi individui potrebbero portare con sé nuove idee, nuove culture che arricchiscono il free market of ideas e la società. Per non dire, poi, che è proprio del saggio adattarsi e non opporsi a fenomeni non arginabili.

In tale ottica, dunque, il concetto di confine non si identifica con quello di muro, metafora dell’ostacolo posto nel tentativo di separare. Nemmeno però si può ipotizzare un mondo fatto di spazi senza frontiere. Il confine delimita un luogo definito (si chiami città, Stato o anche Unione europea) ma non impedisce l’osmosi tra chi sta dentro e chi sta fuori. Così, al concetto di «confine» si accompagna quello di «soglia», di ingresso disciplinato da regole.

Anzi, proseguendo nell’immagine, per varcare un passaggio, usa chiedere permesso, che ben potrebbe essere concesso, a fronte dell’accettazione di alcuni principi basilari di convivenza riguardo ai quali anche una società aperta e pluralista come ambisce ad essere la nostra, non può fare sconti. Anzitutto quello di tolleranza, ovvero il rispetto del pluralismo ideologico, l’accettazione che tutte le credenze possano essere discusse e finanche dissacrate, soprattutto quando rappresentano tra l’altro un potere, sia esso politico, religioso o culturale. E poi, naturalmente, il principio di uguaglianza e il rispetto della dignità della persona.

Per fare qualche esempio tratto dalla cronaca: nessun divieto all’uso del burqini, purché sia una libera scelta di chi lo indossa, ma nessuna tolleranza per violenze o mortificazioni nei confronti della donna: ovviamente le mutilazioni genitali ma a nostro avviso pure il burqa o il matrimonio poligamico, specie se consentito solo all’uomo.

Vi è poi un secondo interrogativo: chi traccia il confine e soprattutto chi definisce i presupposti per il suo attraversamento?

Tale potere, oggetto di contesa tra gli Stati nazionali e l’Unione europea, ci sembra che debba essere attribuito principalmente a quest’ultima, benché forse gli istinti parrebbero condurre nella direzione opposta. Come ha ricordato Emma Bonino, da sempre nei momenti di crisi i cittadini si rivolgono alle istituzioni loro più vicine, «illudendosi tragicamente che possano risolvere problemi che hanno portata e cause internazionali». Vi è poi una ragione ancor più profonda per affidare all’Europa il compito di definire le frontiere: non dover arretrare rispetto alle libertà fondamentali figlie proprio dell’integrazione europea, in primis quelle di movimento e di libero scambio e, tutto sommato, progredire nella ricerca di una comune matrice culturale.

Prendendo a prestito alcune considerazioni di Augusto Barbera, l’idea – che ci sentiamo di condividere – è che o riparte il processo di costruzione di una Europa politica o l’Europa sarà solo “u-topia”, non luogo, «malinconica zona di libero scambio». E se ciò avverrà, senza un soggetto forte e coeso, in grado di affrontare un evento epocale con la tranquilla forza dell’accoglienza, condizionata al rispetto dei diritti, temiamo che a prevalere sarà la paura del diverso e, con essa, la logica nazionale delle barriere e dell’innalzamento di muri sempre più alti tra Stati che pure si erano proposti di costruire insieme un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa.

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